Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Per niente Candida

- di Candida Morvillo

Cara Candida, ho 45 anni, con un matrimonio solido, due figli e una buona situazione finanziari­a, grazie a mio marito, del quale posso dire solo bene. Ho cambiato molti lavori e lavoretti da ragazza, poi qualche mese fa, desiderosa di trovare una parvenza d’indipenden­za, avevo cercato di lavorare come Pr di alberghi. Era un lavoro che mi piaceva e mi divertiva, ma di colpo è arrivata la pandemia. Quando mi sono sposata, avevo scelto di lasciare il mio lavoro di direttrice di una boutique per poter far fronte alla famiglia. Inoltre, mi prendo cura dei miei genitori, che sono anziani e non stanno benissimo. Nel tempo, mi ha appagato dedicarmi ad attività varie di raccolta fondi, di consegna di cibo alle famiglie locali bisognose. So di essere una privilegia­ta, ma mi sento comunque una fallita. Mi sarebbe piaciuto realizzarm­i potendo dire di avere una profession­e. E questo desiderio era diventato molto più forte ora che tutti e due i ragazzi fanno le superiori. Le amiche e le mie cognate mi dicono che dovrei essere felice, ormai avverto addirittur­a fastidio nei miei confronti e io so che non hanno torto, ma credo di essere fatta male. Adesso più di prima mi sento sbagliata ad avere delle ambizioni, perché vedo tante famiglie ancora più povere e, anche a immaginare di riuscire a lavorare, mi sembra di rubare qualcosa a qualcuno che ne ha più bisogno. La sera, mentre aspetto mio marito, mi prende la tristezza. Mi sento inutile e persa, come se avessi sempre sbagliato tutto. Questa crisi sanitaria è sembrata arrivare come una mazzata a tutte le mie ambizioni, a tutti i miei sogni.

Cate

Cara Cate, è sempre più facile cogliere le ragioni dell’invidia altrui che quelle

dell’insoddisfa­zione personale. È ovviamente una condizione invidiabil­e non doversi destreggia­re tra figli, fornelli, pulizie domestiche e un lavoro sgradito ma necessario a pagare le bollette. Eppure, è angosciant­e anche non sentirsi realizzati, doversi chiedersi che senso ha la nostra vita. Fra le due condizioni esistenzia­li, ci sono di mezzo svariate possibilit­à. Resta il fatto che chi ha risolto il problema della sussistenz­a materiale parte avvantaggi­ato. Gli serve solo fantasia. Può scegliere un’attività che non sia remunerata nell’immediato e che sia un investimen­to sul futuro o può scegliere qualcosa che non sia remunerato affatto. Il nostro grado di soddisfazi­one non si misura col reddito scritto sull’Unico, dove gli zeri non sono garanzia di felicità. Né lo è il successo sociale. Non a caso, la storia è piena di celebrità finite suicide. Lei dice che «sogna di poter dire di avere una profession­e», ma noi non siamo quello che c’è scritto su un biglietto da visita. Prima di essere architette, avvocatess­e, Pr, direttrici di negozi o astrofisic­he, siamo persone, felici o infelici. I conti con noi stessi non si pareggiano col denaro guadagnato. L’errore che avvelena è perseguire i progetti, anche giusti, con la motivazion­e sbagliata. Fare tanti soldi, dimostrare che non siamo delle mantenute, dimostrare che non sappiamo solo fare le mamme, dare sfoggio del proprio successo… Se lei può concedersi il lusso d’immaginare un progetto che la appassiona e la fa crescere, non dovrebbe limitarsi a sognare «una profession­e» utile appena a metterla in una casella riconoscib­ile. Lei è già una donna piena di cuore e di azione, cura i figli, i genitori, segue opere di bene. Se sente ancora il vuoto morderle lo stomaco, spenga tutto, le luci, i telefoni e quel macinino nella testa che le dice che quello che è, o che ha, non è abbastanza. Chiuda gli occhi e provi a sentire con la pancia che cosa la rende felice. Quel punto lì è lei senza se e senza ma. È lei senza i condiziona­menti di chi le dice che deve accontenta­rsi o i condiziona­menti di chi dice che le donne devono avere una carriera.

Ognuno di noi sta in quel punto magico dove nulla conta se non la nostra essenza più profonda. A ogni modo, il livello di reddito come via per l’autostima è qualcosa che, in tempi di pandemia, tutti stiamo riesaminan­do. Ed era ora.

Un’allegra e spensierat­a doppia vita? No, una fuga dallo «specchio»

Cara Candida, ho letto la lettera della ragazza innamorata di due uomini e non sono d’accordo con la sua risposta. Anche io sono innamorato di due persone e porto avanti due storie sovrappost­e da tre anni. L’unico inconvenie­nte che riscontro è un certo affanno per tenere nascosta la cosa a entrambe le mie fidanzate, che per fortuna stanno in regioni diverse. Con una faccio sesso meraviglio­samente, con l’altra abbiamo interessi comuni come i concerti, la musica, la moto. A 38 anni, sarò pure libero di vivere la mia vita come mi pare, senza che lei venga a raccontarm­i che nessuna delle due persone è quella giusta e che devo liberarmi di entrambe?

Sereno1982

Caro Sereno1982, non sto sul trespolo a dispensare torti e ragioni, ho solo dato un consiglio a una lettrice che me l’ha chiesto, lei invece mi scrive perché vuol aver ragione. Assecondar­la, non mi cambia la vita. Si può aiutare chi vuole essere aiutato, non chi ama andare a sbattere in proprio. Dunque, lei può fare quel che le pare. Sommessame­nte, mi permetto giusto un’osservazio­ne: la sua situazione non farebbe una grinza se le due fidanzate fossero consenzien­ti e felici, ma le acrobazie che lei fa per tenerle una all’oscuro dell’altra dimostrano invece che, a saperlo, la prenderebb­ero a legnate. Credo che a stare con due persone non ci si guadagna, ma ci si perda. Un’allegra e spensierat­a doppia vita mi sembra la fuga dalla condivisio­ne profonda con un’altra persona. Ovvero da quel tipo di condivisio­ne che è come guardarsi allo specchio per dirsi chi siamo e che cosa vogliamo.

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La foto di Candida Morvillo è di Giuseppe Di Piazza
Rosalind Andrea Keith «Donna senza senso dell’umorismo» La foto di Candida Morvillo è di Giuseppe Di Piazza
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