Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Noi, l’epidemia e il Sudamerica
Un morto al minuto: 1.400 morti al giorno.
Questo è il numero che Papa Francesco segnalava qualche giorno fa senza indicare il nome del Paese, che tuttavia sappiamo essere il Brasile. Nel Sud del Mondo, dal Messico al Cile, passando per tutti gli Stati intermedi, la situazione è sull’orlo dell’abisso: i cimiteri negli Usa, le immagini dei camion militari con le bare dei nostri concittadini impallidiscono di fronte alle vedute aeree delle fosse comuni scavate nel cuore della foresta dell’Amazzonia.
Si è detto che il Covid-19 intaccava soprattutto aree altamente sviluppate e industrializzate: che era il frutto della cospirazione contro il capitalismo frenetico delle potenze, arricchite a scapito delle economie più deboli. In quanti ci siamo sorpresi a dire che era questo il motivo per cui la diffusione del coronavirus ha imperversato nelle regioni italiane maggiormente interessate dallo sviluppo industriale e manifatturiero, dalla Lombardia all’Emilia Romagna. E ora? Cosa possiamo dire? Arrivano i dati (del tutto inesatti, perché sottostimati) relativi al Sud America africano? Cosa sta succedendo? In America Latina così come in Africa non sembrano esserci zone ad alta industrializzazione.
Tuttavia, il Brasile non è l’unico Paese che sta piangendo i suoi morti: in Ecuador, in Perù, e persino in Messico le precauzioni sono state adottate in modo preventivo, con misure di prevenzione e sicurezza pari a quelle italiane ed europee. Ma la gente muore con una percentuale inimmaginabile persino rispetto a quanto da noi accaduto. Perché? Qual è il vero problema di questi Paesi al “confine del mondo”? Lo sappiamo bene: il virus non conosce differenza di ceto, religione, genere o razza, colpisce poveri e ricchi. È un virus “democratico”… ma lo è per davvero?
Purtroppo, non è così: consideriamo non il caso Brasile ma il Perù, la cui condizione è molto simile a ciò che accade alla gran parte dei Paesi dell’America Latina, e cerchiamo di confrontarlo con quanto accaduto da noi in Italia. Il numero dei contagi a tutt’oggi è superiore a quello italiano, con una popolazione di circa la metà. Certo il numero dei morti è nettamente inferiore (almeno secondo le statistiche divulgate), e tuttavia se si guarda l’età media si scoprono aspetti drammatici: la maggior parte dei malati risulta essere in un’età compresa tra i 40 e i 70 anni (mentre quella italiana è nettamente superiore 65-90).
Cosa sia successo a questo Paese come ad altri non è facilmente intuibile se non si conosce lo strato sociale ed economico della maggioranza della popolazione, che non ha un lavoro stabile ma un trabajo informal, vale a dire, lavora a nero, a giornata, o tutt’al più come precario. Per questo i peruviani (ma si potrebbe dire, gli ecuadoregni, i colombiani, i venezuelani, i messicani) hanno dovuto scegliere: o rimanere a casa e non portare il sueldo giornaliero e, conseguentemente, morire di fame, o uscire di casa e continuare il lavoro a giornata rischiando sì di infettarsi ma portando il cibo ai propri cari. Ancora una volta il discrimine si gioca sulle differenze sociali ed economiche.
Il nostro è un mondo dove «gli esclusi continuano ad aspettare» e dove domina la «globalizzazione dell’indifferenza»: e se invertissimo la rotta? Sapete quanto basterebbe per ridare dignità ai Paesi dell’America Latina perché possano affrontare la pandemia con le stesse nostre armi, attraverso un lockdown duraturo ed efficace? Sarebbe sufficiente che ciascun lavoratore dei Paesi più sviluppati si riducesse di un giorno il costo del proprio lavoro e lo donasse alle famiglie latino-americane. Poca roba? No: sarebbero centinaia di miliardi di dollari. Una nuova economia della solidarietà e della convivialità tra i popoli, ma «mi dicono che è una stoltezza dirselo» (Montale).