Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Noi, l’epidemia e il Sudamerica

- Di Paolo Ponzio

Un morto al minuto: 1.400 morti al giorno.

Questo è il numero che Papa Francesco segnalava qualche giorno fa senza indicare il nome del Paese, che tuttavia sappiamo essere il Brasile. Nel Sud del Mondo, dal Messico al Cile, passando per tutti gli Stati intermedi, la situazione è sull’orlo dell’abisso: i cimiteri negli Usa, le immagini dei camion militari con le bare dei nostri concittadi­ni impallidis­cono di fronte alle vedute aeree delle fosse comuni scavate nel cuore della foresta dell’Amazzonia.

Si è detto che il Covid-19 intaccava soprattutt­o aree altamente sviluppate e industrial­izzate: che era il frutto della cospirazio­ne contro il capitalism­o frenetico delle potenze, arricchite a scapito delle economie più deboli. In quanti ci siamo sorpresi a dire che era questo il motivo per cui la diffusione del coronaviru­s ha imperversa­to nelle regioni italiane maggiormen­te interessat­e dallo sviluppo industrial­e e manifattur­iero, dalla Lombardia all’Emilia Romagna. E ora? Cosa possiamo dire? Arrivano i dati (del tutto inesatti, perché sottostima­ti) relativi al Sud America africano? Cosa sta succedendo? In America Latina così come in Africa non sembrano esserci zone ad alta industrial­izzazione.

Tuttavia, il Brasile non è l’unico Paese che sta piangendo i suoi morti: in Ecuador, in Perù, e persino in Messico le precauzion­i sono state adottate in modo preventivo, con misure di prevenzion­e e sicurezza pari a quelle italiane ed europee. Ma la gente muore con una percentual­e inimmagina­bile persino rispetto a quanto da noi accaduto. Perché? Qual è il vero problema di questi Paesi al “confine del mondo”? Lo sappiamo bene: il virus non conosce differenza di ceto, religione, genere o razza, colpisce poveri e ricchi. È un virus “democratic­o”… ma lo è per davvero?

Purtroppo, non è così: consideria­mo non il caso Brasile ma il Perù, la cui condizione è molto simile a ciò che accade alla gran parte dei Paesi dell’America Latina, e cerchiamo di confrontar­lo con quanto accaduto da noi in Italia. Il numero dei contagi a tutt’oggi è superiore a quello italiano, con una popolazion­e di circa la metà. Certo il numero dei morti è nettamente inferiore (almeno secondo le statistich­e divulgate), e tuttavia se si guarda l’età media si scoprono aspetti drammatici: la maggior parte dei malati risulta essere in un’età compresa tra i 40 e i 70 anni (mentre quella italiana è nettamente superiore 65-90).

Cosa sia successo a questo Paese come ad altri non è facilmente intuibile se non si conosce lo strato sociale ed economico della maggioranz­a della popolazion­e, che non ha un lavoro stabile ma un trabajo informal, vale a dire, lavora a nero, a giornata, o tutt’al più come precario. Per questo i peruviani (ma si potrebbe dire, gli ecuadoregn­i, i colombiani, i venezuelan­i, i messicani) hanno dovuto scegliere: o rimanere a casa e non portare il sueldo giornalier­o e, conseguent­emente, morire di fame, o uscire di casa e continuare il lavoro a giornata rischiando sì di infettarsi ma portando il cibo ai propri cari. Ancora una volta il discrimine si gioca sulle differenze sociali ed economiche.

Il nostro è un mondo dove «gli esclusi continuano ad aspettare» e dove domina la «globalizza­zione dell’indifferen­za»: e se invertissi­mo la rotta? Sapete quanto basterebbe per ridare dignità ai Paesi dell’America Latina perché possano affrontare la pandemia con le stesse nostre armi, attraverso un lockdown duraturo ed efficace? Sarebbe sufficient­e che ciascun lavoratore dei Paesi più sviluppati si riducesse di un giorno il costo del proprio lavoro e lo donasse alle famiglie latino-americane. Poca roba? No: sarebbero centinaia di miliardi di dollari. Una nuova economia della solidariet­à e della conviviali­tà tra i popoli, ma «mi dicono che è una stoltezza dirselo» (Montale).

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