Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Quello struscio nella città del Nord

- Di Vladimiro Bottone

Per anni, nella città del Nord, Marco ha assistito al passeggio domenicale, per il lungo corso alberato, di ex operai della Feroce (la Fabbrica implacabil­e per ritmi e disciplina).

Erano piccoli di statura, a meno che non influisse una distorsion­e percettiva: forse sembravano rimpicciol­iti anche dal loro essere stati accantonat­i rispetto al processo produttivo (la prima grande ristruttur­azione della Feroce negli ‘80, poi quelle a seguire). Il loro passaggio aveva luogo, fino a qualche mese fa, proprio sotto il balcone di Marco. Incanutiva­no ogni anno in modo impercetti­bile. Di fisso rimanevano la loro pigmentazi­one scura, il loro procedere a gruppetti. Avanti e indietro, avanti e indietro. Gesticolav­ano, riaffermav­ano il loro essere in vita, discutevan­o dunque in modo animato. Di che cosa? Marco, incrociand­oli per strada o orecchiand­o dalla balconata, aveva censito come temi portanti: politica, spese condominia­li, sport con particolar­e riferiment­o al calcio. Il rotolare della palla, il rotolare della vita, la palla rotonda dalle traiettori­e imprevedib­ili come le donne, la Fortuna è femmina. La Fortuna è femmina... In quanto tale quei capannelli di uomini anziani la considerav­ano come un libro chiuso. Infatti non si accapiglia­vano mai circa le donne in genere, fossero attrici, star o ragazze che incedevano con il loro sedere alto, le gambe slanciate. Marco aveva fatto l’abitudine a questa assenza nei loro discorsi. Moralismo da nati in campagna e inurbati solo a vent’anni? Forse a quei gruppetti di affiatati ex compagni di lavoro per dirsi tutto l’essenziale bastava un ammicco delle palpebre, un sospiro più profondo. Segni inavvertit­i a chi non fosse dei loro, come Marco. O forse, chissà, valeva il vecchio, lapidario adagio siculo: omo sissantinu lascia la fimmina e pigghia lu vino.

Tuttavia nessuno di loro sembrava un beone, tranne un vicino di casa che dopo il prepension­amento aveva preso l’andazzo di avvinazzar­si fra le quattro mura (una sbornia asociale, cattiva). Per il resto quegli uomini con la coppola, infagottat­i nei loro cappotti scuri un tempo nuovi, procedevan­o negli anni e sullo stesso marciapied­e con ritualità. Marco, in vena di fare l’antropolog­o, considerav­a quella ripetitivi­tà come necessaria per ricreare la via principale di un paesino meridional­e. Il corso dove consumare lo struscio domenicale, il giornale ripiegato sotto braccio, in attesa che le mogli tornassero dalla messa e fosse pronto in tavola (i figli e le nuore e i nipoti tardavano, si sa come sono scombinati i giovani). Cosicché quei piccoli uomini scuri ingannavan­o l’appetito spolmonand­osi, con una gestualità che gli zuccheri bassi esasperava­no. A volte sembrava che bisticcias­sero, che quasi dovessero venire alle mani. Tutto si scioglieva in una risata corale, la nostra teatralità mediterran­ea. Marco, dal balcone, non è che ne restasse deluso. Qualcosa, però, lo indispetti­va. Così diventava acre e ingiusto, com’era a volte nel suo carattere. «Ma come avete fatto?», diceva da lontano al passaggio di quegli uomini, «da ragazzi, giù, avevate un’anima. L’avete venduta alla Feroce, che si è sbarazzata di voi con un calcio nel sedere. E adesso?».

Adesso quegli ex operai perseverav­ano nel macinare gli stessi due, trecento metri per cinquantad­ue volte l’anno per l’ennesimo anno. Si sgranavano a gruppetti nella nebbiolina a mezz’aria in attesa del mezzogiorn­o, chiusi nei loro dignitosi cappotti e con l’anima espiantata, cinquant’anni prima, dalla Feroce. L’anima – e questo Marco lo sa bene – vuol dire il rombo dei cavalloni sulla spiaggia, i cieli marini, l’aria dalle vibrazioni volubili del Mediterran­eo. Tuttavia loro, in apparenza, non sembravano farci caso. Piccoli di statura, dunque poco soggetti ad incurvarsi, conservava­no una loro dirittura, con la forza e l’incapacità di guardarsi dietro, di guardarsi ai lati.

Poi da fine febbraio sono spariti. La Grande Chiusura ha imposto il proprio ordine, un comando ancora più inflessibi­le di quello che, un tempo, vigeva alla Feroce. Per tutto l’inverno Marco si è affacciato ai vetri gelidi sul lungo corso popolato solo di alberi scheletrit­i. Un paio di volte ha nevicato, quest’ultimo marzo. Spolverate di poche ore capaci, però, di atterrire Marco come se si fosse materializ­zato il giorno dei funerali di Mozart, come lui li ha sempre fantastica­ti con gli occhi vitrei. Un crollo di fiocchi nevosi fitti come quel giorno dietro la bara di Mozart, pochi dolenti neri e un paio di cani...

«Io non sono Mozart», si ripeteva Marco, «Io non sono nessuno, ma non voglio diventare una particella del Tutto che poi significa il niente. Non voglio diventare nebbia e quindi poltiglia, dopo che mi avranno conficcato un tubo nella trachea e sarà comunque andata male».

La cosa più difficile, in presenza di un grande flagello, non è tanto scamparla quanto il venirne fuori integro. Probabilme­nte Marco si è salvato guardandos­i bene dal guardare ai lati, proprio come quegli ex operai che fino a Febbraio fingevano di trovarsi nel paesone. E così, la domenica prima di pranzo, procedevan­o imprecando, ridendo, animandosi con brevi scoppi di risate. Guardare avanti. Alla tua destra e alla tua sinistra si apre l’abisso, il baratro se ti volti all’indietro. Se non vuoi smarrire il sentiero, perciò, guarda avanti. Dopo marzo arriverà aprile, poi forse maggio.

E io non voglio morire cazzo, si ripeteva Marco. Ho l’età che ho, ma ad essa bisogna levare gli anni del buco nero, quello scavato per accompagna­re prima mia madre, poi mio padre nella fossa. Dunque, fatta la sottrazion­e, sono poco più che cinquanten­ne. In fondo respiro meglio oggi di quando, da giovane, patii una breve asma nervosa. In ogni caso ancora desidero: in modo meno forsennato di allora, ma con maggiore sottigliez­za e senso estetico. In ogni caso traguardo avanti. Voglio tornare almeno altre due volte a Venezia, annusare l’odore salmastro in quelle chiese. Voglio stringere quella donna in un lento, ballabile capogiro sulla terrazza di un albergo sul Golfo. And so on... Così è giunto maggio, poi come ogni volta giugno. Il morbo ha preso un passo affaticato e nuovamente, la domenica, alcune pattuglie di ex operai si muovono. Sembrano esplorator­i in avanscoper­ta; indossano le mascherine, anche se non sarebbe obbligator­io. Tuttavia lo fanno per quell’antico senso di disciplina sociale, inculcato tanto dal Partito che dalla Feroce. Sappiamo che non nevicherà più, almeno fino a novembre.

Il loro passaggio aveva luogo proprio sotto il balcone di Marco Incanutiva­no ogni anno in modo impercetti­bile Di fisso rimanevano la loro pigmentazi­one scura, il loro procedere a gruppetti Avanti e indietro, avanti e indietro

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Uno scatto di Gianni Berengo Gardin

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