Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Sedersi a guardare il grano
Un esercizio quotidiano di meditazione o di preghiera utile a quanti hanno un cuore contadino
Nel marzo scorso, con un appello di Alessio Viola, abbiamo chiesto a scrittori e intellettuali di offrirci spunti, racconti e riflessioni per capire com’è cambiata la nostra vita al tempo del coronavirus. Il passaggio alla fase 2 (o 3) non ha cambiato le cose; siamo ancora convinti che sia utile riflettere su quello che ci è successo, sul presente (la ripartenza) e sul post-pandemia. Chi vuole può inviare il suo testo (non più di 5.500 battute spazi inclusi, con foto e bio dell’autore) a redaz.ba@ corrieredelmezzogiorno.it.
Da quando è scoppiata la paura io ogni giorno dopo il lavoro me ne vengo qui, mi siedo per terra e guardo il grano. Il grano se ne fotte e cresce lo stesso, sa della morte, dell’abbandono ma il suo chicco cresce ugualmente perché, molto semplicemente, segue la sua natura. Un chicco posto a qualche centimetro sotto terra, cresce: piccole radici vanno verso il basso mentre un germoglio va verso l’alto alla ricerca della luce. Lo fa perché questa è la sua natura. Anche se a sinistra del campo in cui si trova ci sono alberi di ulivo morti o quasi, anche se a destra c’è l’orto che sta coltivando mio zio e che se la situazione peggiora probabilmente non potrà più coltivare.
Il grano conosce la morte e l’abbandono ma se ne fotte, se ne fotte e cresce lo stesso perché questo rientra nella sua natura.
Venire qui e stare in silenzio mi aiuta a mantenere la calma, a gestire l’imprevisto, ad allontanarmi dalla tentazione di voler necessariamente controllare tutto e tenere il conto dei contagiati, dei morti e dei guariti. Giorno dopo giorno tenere il conto. Tutto sotto controllo. Il grano mi allontana dai giornali che mi vorreb
impaurita, disperata all’idea di essere impotente di fronte a qualcosa che non posso nemmeno vedere. Quando sto in mezzo alla gente, in questi giorni, mi sento come in una boccia di vetro, una di quelle che si usano per far nuotare i pesci rossi. Mi immagino come una specie di piccolo perno verticale, arancione e flessibile, fissato per bene giusto sul fondo dell’ampolla e poi tutt’intorno nebbia, fumo inodore, brusìo di personaggi piccolissimi che mi riempiono la testa e me la offuscano di dati, luoghi, numeri, soprattutto numeri.
Il grano invece sta aggrappato alle radici, non scappa, non si lava le foglie e di tutta
questa confusione non ne sa nulla.
Lui sa che ci sono e che sto qua per terra a guardarlo, sa che vengo a trovarlo ogni giorno, mi aspetta e mi vede scrivere, mi sente parlare al telefono con le persone che amo, ascolta i racconti delle mie giornate, sa che gli dedico del tempo e tante, tantissime attenzioni. Ma allo stesso modo sa che nonostante tutto il mio amore, potrebbe succedere un qualsiasi imprevisto, ecco, è questa la parola chiave: imprevisto. Una malattia improvvisa che fa marcire la pianta, una stupida scintilla estiva che prende corpo e brucia, una grandinata improvvisa che arriva e distrugge, persino una forte raffica di vento,
esatto, persino una forte raffica di vento che soffia e spazza via tutto, il pieno e il vuoto. Il grano lo sa che io non sono onnipotente e me lo ricorda ogni giorno, mi aiuta ad accettare che io, lui e tutto quanto su questa terra, siamo sottoposti alla legge universale dell’imprevisto.
Perciò vengo qui, per fare esercizi di piccolezza, per ricordarmi che l’amore non basta, che l’attenzione non salva, che le mie possibilità sono limitatissime e che perciò non mi serve a nulla cercare di calcolare tutto al centimetro esatto, al contagiato odierno, che non mi serve dimostrare quanto sono brava a voler bene e che è completamente inutile dosare il cuore. Il cuobero re deve essere presente in maniera assoluta, illuminata, ma il cuore, cari miei, il cuore lo deve sapere che ciò che ama potrebbe per una qualsiasi ragione, improvvisamente, perire, scomparire, morire miseramente.
Ecco, io credo che vivere a contatto, accanto, dentro la terra, mi abbia insegnato prima di tutto la pazienza di aspettare, la capacità di accettare l’inatteso, quel senso di relatività che risiede nelle mie braccia, nelle mie mani, in tutta quanta la mia volontà di controllo, controllo, controllo. Che senso ha avuto affannarsi per ottenere quel posto in carriera, guadagnare un mucchio di soldi, fare i salti mortali per comprarsi la macchina nuova e il vestito firmato all’ultima moda? Che senso ha avuto finora fare una gara a chi se ne fotte di più, a chi ama di meno? Era un modo per scappare dalla paura di non ricevere nulla in cambio e rimanere senza nemmeno una spiga in ricordo? La paura, l’aspettativa, lo spavento dannatamente umano di perdere qualcosa che ci illudiamo di possedere.
Un contadino lo sa che l’amore non basta. Non basta la bellezza, la ricchezza, non basta neppure il sapere. Solo la natura decide sovrana, il flusso universale delle cose che vanno per come devono andare e basta. Ogni cosa ha il suo flusso, ogni vita giunge a morte e così sia. Bisogna solo avere fiducia, la fiducia di un tuffatore che sa di potersi fidare dell’acqua.
Bisogna scoprirsi piccoli e assolutamente impotenti per poter accettare la totale assenza dell’idea di possesso, poter ammettere la perdita, l’arrivo della morte come una possibilità. Solo una delle tante possibilità. Venire qui è il mio modo di pregare, perché in verità ho un cuore contadino, piccolo e impotente, un cuore amico della morte. E dell’amore.