Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Sophia Loren da applausi in una Bari cara ai baresi
Finalmente vera, finalmente agée, senza posticci o trucchi falsanti. E’ stupenda Sophia Loren con le fragilità e le rughe dei suoi 86 anni, tornata al cinema nel film diretto dal figlio Edoardo Ponti, finalmente se stessa così come l’aveva sempre voluta Vittorio De Sica ne La Ciociara, in Matrimonio all’italiana, ne I girasoli,o come la volle Ettore Scola nel capolavoro assoluto di Una giornata particolare.
E la grande attrice si mette a nudo ne La vita davanti a sé, seconda trasposizione del libro di Romain Gary (la prima era di Moshé Mizrahi, con Simone Signoret), ambientata a Bari. Sophia, madame Rosa, incede con difficoltà, appoggiandosi alle pareti dell’appartamento in cui accoglie orfani, o figli di prostitute, lei stessa ex prostituta in Marocco e Algeria, dopo essere sopravvissuta ad Auschwitz. Qui, in un caseggiato multietnico di una città multietnica – solo i baresi possono riconoscere i due ponti di corso Cavour e di Japigia, il lungomare di San Girolamo; l’unico tratto di città forse distinguibile è il campanile della cattedrale che si scorge in lontananza in un campo lungo – qui madame Rosa conduce una vita difficile, dura, fatta di piccoli imbrogli e di espedienti, ma che le permettono anche atti di estrema generosità, di diventare, alla fine, «la famiglia» di Momo, l’orfano alla ricerca impossibile di una madre.
E’ stanca e malata, madame Rosa, e in fondo, scrive Gary, «la vita era l’unica cosa che le restava. La gente tiene alla vita più che a tutto il resto, ed è anche buffo se si pensa a tutte le belle cose che ci sono al mondo».
Intorno a questo microcosmo gira il mondo che abbiamo imparato a conoscere attraverso i film di Robert Guédiguian, dove si mescolano culture e saperi, odori e immagini che ancora, a dispetto di tutto, si trovano nelle città del Mediterraneo: così Bari non è molto diversa da Marsiglia o da Napoli, da Tangeri o da Algeciras, una città quasi estraniante nel racconto di Edoardo Ponti, senza stucchevoli stereotipi.
La storia del libro, in realtà, si svolge a Belleville, il quartiere a nord di Parigi in cui Daniel Pennac ha ambientato il ciclo della famiglia Malaussène, ma nelle stradine di Bari vecchia, o del quartiere ebraico di Trani (il film è stato girato nelle due città e quindi nella masseria Brancati di
Ostuni) Sophia è perfetta nel vestitino smilzo, con la borsa della spesa al braccio. Per lei parlano gli occhi in un volto scavato e mai visto, con la bocca grande che non riesce ad allargarsi in un sorriso e la fierezza di un corpo eretto, pieno di dignità come nel L’oro di Napoli. È perfetta Sophia Loren, come lo sono gli altri attori, protagonisti di una vita – scrive Gary – che «fa vivere la gente senza fare una grande attenzione a quello che gli succede».
Il film di Netflix, non pienamente riuscito nella tenuta complessiva della trama, vive di tante suggestioni, di squarci belli, ma ha soprattutto il merito di aver riportato sugli schermi un’attrice trasformata dal tempo in una icona, ma che non ha smarrito per strada la capacità di emozionare attraverso storie dense come questa di Roman Gary. Sophia Loren recita dal primo all’ultimo istante, ma lo spettatore non se ne accorge mai, per questo è brava, la più brava di tutti. Ed è la più bella di tutti.