Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
La corsa dopo le bombe Come quella volta, nel 1947, quando Coppi fu inseguito tra le macerie della guerra
Lo sciame più colorato nel vicolo più buio. La corsa che cura e rammenda il Paese nella città moribonda. Nessuno immaginava che sarebbe andata a finire così (in verità il Corriere del Mezzogiorno è sempre stata sentinella della deriva etica del territorio, spesso in solitudine), men che meno la Regione Puglia quando «impegnando» una tappa di questo Giro a tutto pensava tranne che un momento così gioioso avrebbe potuto fare lo stesso rumore di uno sparo durante un uragano. Perché la città da cui oggi riparte è ormai una città fantasma, che non sembra appartenere e interessare più a nessuno. Quasi mai così in basso nel corso della sua lunga storia, umiliata da politici imbarazzanti più che inadeguati, ostaggio di una criminalità troppo rozza per venire a patti con la logica, ferita da quell’immaginario collettivo che la percepisce come avamposto irrecuperabile alla legalità, orfana di un dialetto che un tempo era persino musicale e oggi solo manifestazione di arroganza, priva di ogni senso estetico e pudore urbano (se ne accorgeranno anche i corridori uscendo dal centro abitato, quando i palazzi tutti uguali di certa «edilizia dei miracoli» faranno spazio alle erbacce, alla spazzatura e all’incuria di una terra dimenticata prima ancora che trascurata).
Per trovare Foggia così arresa e sconfitta si deve risalire a un Giro d’Italia dell’immediato dopoguerra, esattamente al 4 giugno 1947. Decima tappa Bari-Foggia vinta da Mario Ricci, mentre la corsa andò a Gino Bartali. Quello fu il Giro in cui i corridori arrivarono e ripartirono da una città ancora sventrata dalle bombe (del 1943), stremata dalla paura, resa malferma e infelice dalla fame, dalla ferocia e dalle macerie che lasciano le guerre. Ciò nonostante, una città che aveva troppa voglia di sopravvivere per inginocchiarsi al destino, come dimostra la caccia all’uomo più conteso di quel Giro: Fausto Coppi. «Coppi, invece, era riuscito a dileguarsi. Tre uomini lo andavano cercando di qua e di là, framezzo alla marea, smarriti ma dignitosi, con un fascio di garofani rossi infiocchettato. Erano i rappresentanti del Pci di Foggia, che a nome dei compagni volevano rendere omaggio a Fausto che ha fama di simpatizzare». Un’energia quasi disperata, superbamente descritta da Vasco Pratolini nelle
Cronache dal giro, pubblicate tappa per tappa da Il nuovo
Corriere di Firenze. Da allora il Giro è tornato a Foggia molte volte, tra tutte ricordiamo le edizioni del 1974 (22 maggio, corsa vinta da Eddie Merckx), del 1984 (30 maggio, a Milano la maglia rosa la indossò Bernard Hinault), quella del 1985 (25 maggio con l’unica crono individuale mai ospitata, anche quell’anno vinse Hinault) e del 1999 consegnata alla leggenda dalla discussa squalifica a Marco Pantani (20 maggio, dopo l’abbandono del Pirata il Giro lo vinse Ivan Gotti). Ma mai, davvero mai come oggi, Foggia si presenterà all’Italia e al mondo con il disarmo e il disorientamento che potranno anche sfuggire agli occhi delle telecamere ma non a quelli dei suoi abitanti.
Il Giro non è più quello di una volta, l’informazione, la rete e soprattutto i social permettono agli appassionati della corsa (oltre dieci milioni) di spiare nella scollatura di un seno che un tempo era in-violabile. Nel caso di Foggia però non serve, ci ha pensato la sua classe dirigente a esportarne tutto il peggio possibile. E se è vero che il Giro d’Italia serve anche a curare le ferite dei posti in cui passa, come Lasonil su ginocchia ammaccate, Foggia ne aveva bisogno. Ieri garofani rossi, oggi pomata lenitiva. Qui il tempo è come i raggi delle biciclette, sembrano fermi invece si rincorrono.