Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Grandi magazzini
Non ho gran voglia di ammuffire in casa. La vita quotidiana non può ridursi alla televisione accesa in permanenza senza audio (allora meglio un acquario, oltretutto non soggetto al canone). Potrei rimuovere un paio di ragnatele, è vero. Ma la tessitura del ragno è un lavorio metodico, quotidiano, appeso a un filo (e tutto per ritrovarsi con un pugno di mosche). Somiglia troppo, in miniatura, alla mia attività di scribacchino. Non me la sento di disfare così, per sfizio, l’opera di un collega. Potrei uscire di casa, sento che dovrei farlo dopo l’inverno del nostro confinamento. Oltretutto, almeno per ora, è di lecito respirare senza bavaglio, all’aperto. Potrei approfittarne anche per testare la nuova gestione del supermercato qui nei paraggi. L’ortofrutta della grande distribuzione è quella che è, d’accordo: kiwi duri come sassi che imputridiscono, di colpo, in una notte. E ti sciolgono in bocca un fiele medicinale. Da acerbi a marci senza passare per la maturazione; nella mia precedente reincarnazione ero un kiwi, bene.
Ma bando alla malinconie casalinghe, a questi bilanci dalle tonalità depressive! Via, fuori! Approfittiamo della libera uscita senza mascherine, prima di un ripensamento delle Autorità. Così mi ritrovo a camminare per questo quartiere interclassista di una città del Nord. Il supermercato resta la mia stella polare, il buon pastore che mi approvvigiona. Senza il supermercato dovrei abbattere gli uccelli con la fionda e raccogliere il tarassaco negli spartitraffico. Strada facendo mi sorprendono delle voci bianche. Si fanno ancora bambini – e così tanti poi? Scruto oltre il reticolato: l’intera popolazione infantile del quartiere è raccolta là, nel giardino della scuola estiva. Saranno una cinquantina in tutto. Si sfogano essenzialmente gridando, come pulcini in una stia. Per il resto mi sembrano già abbastanza ubbidienti ai richiami delle vigilatrici. Alle Elementari inizierà il loro lavaggio del cervello, li vedo già incamminati bene. Riprendo la marcia, mi vengono incontro queste madri di famiglia magrebine. Hanno un’età indefinibile, sono paffute e sempre abbastanza ciarliere, sia pure con moderazione. Coprono il capo con dei veli color pastello, parlottano fra loro di buonumore. Si attardano ad aspettare la figliolanza: bambini e bambine, corrucciati come tutti quelli che vivono fra due mondi e non sanno scegliere. Hanno comunque il merito di abbassare un po’ l’età media del quartiere. Per il resto mi imbatto più che altro signore anziane con il carrellino della spesa. Spesso sono vedove; i mariti erano adibiti a lavorazioni pesanti e rischiose, fra asbesto e vernici. A differenza dei defunti, queste vedove sono tenaci, non sembrano disposte a mollare il colpo. L’aria gelida di questo supermarket – evidentemente – conserva bene non solo le derrate.
Altre vedove sparse per i vari reparti. Prese singolarmente – e con la mascherina, al chiuso – sembrano più meste. Sono intente a scegliere con oculatezza, la pensione è sempre un reddito decurtato. Una di loro sospira dal basso, con desiderio, verso una scatola di biscotti collocata troppo in alto sulla scaffalatura. Ha adocchiato il prodotto in offerta; è la sua massima aspirazione stamattina. Mi allungo sui talloni, che mi costa? Le ho prelevato e porto i suoi biscotti. La vedova si è sciolta in un sorriso di gratitudine infinita: quella confezione era l’ultima. Poi trotterella verso l’altra corsia, i casalinghi sono pieni di donne come lei. Anziane dai polsi minuti, fragili nelle ossa, che combattono la guerra egoista e silenziosa per accaparrarsi le offerte. La musichetta dell’altoparlante – le di qualche estate fa – accentua il silenzio fra i corridoi. Ogni pensionata è sola nella propria caccia al 3x2. Un signore sui settanta – guarda là - un maschio sopravvissuto. Ha il bavaglio sbilenco, rimprovera aspramente la nipote. La sua è una voce stizzita, senile, iraconda. In una parola: disperata, forse dovrei dire fottuta come tutti noi. Basta. Prelevo tre bottiglie di vino senza badare agli svolazzi dell’etichetta. È alcol, no? Qui si beve per dimenticare. Ora le bottiglie cozzano nel mio carrello vuoto, quel tintinnio ha il potere di risvegliarmi alla realtà. Una verità auto-evidente: il microcosmo del quartiere riassume la senescenza del Paese. Senescente significa spento, passivo, declinante. Mi sistemo in coda alle casse; una fila muta e gobba sotto i neon. Italia. I giovani emigrano perfino da questa città del Nord; trasferiscono il loro capitale di istruzione che frutterà altrove, nel centro dell’Europa. L’Italia, come questo quartiere, è periferia. Così restiamo noi. E noialtri non possediamo alcuna capacità non dico di redenzione, non dico di iniziativa, ma anche solo di reazione.
«Giorgia in cassa! Apre la cassa 2!».
Noialtri in età abbiamo paura di un ritorno dell’inflazione; di una ristrutturazione dei nostri BTP tesaurizzati in un’esistenza; di un prelievo sui conti correnti o dell’imposizione di una nuova Imu sull’abitazione principale. Abbiamo timore, sostanzialmente, di TUTTO. E perciò siamo pronti a sottometterci nei confronti di qualunque comando: è una postura mentale, persino fisica. Spalle incurvate, sguardi mogi, collo incassato, bavaglio sulla bocca. Ci diranno di murare le finestre? Noi lo faremo. Ci diranno che il nuovo inno nazionale è «Ballo ballo» della Carrà? Lo adotteremo. Si stabilirà che dovremo farci imprimere un codice a barre sulla fronte, al centro delle corna? Ce lo faremo tatuare. Perché la ribellione sottintende ossa ben calcificate; gambe agili; propensione al rischio. Insomma: implica molti maschi giovani e aggressivi, vale a dire proprio ciò di cui questa ex Nazione difetta. Punto. Tanto vale far scorrere le mie tre bottiglie sul nastro, coricate, e pagare. La cassiera sarà sotto i trenta, la conosco dalla precedente gestione. Si era assentata in maternità per qualche mese. Sarà terrorizzata all’idea di perdere il lavoro alla minima squadratura; di venire soppiantata da una cassa automatizzata o da una delle duecento aspiranti alla sua postazione. Esco sul piazzale. Un questuante nigeriano accompagna un signore malfermo, gli depone la spesa nel bagagliaio dell’auto, un vecchio catorcio stigmatizzato perché inquinante. Mi incammino verso casa, alla fine potrei sempre scrivere un racconto. Poi dovrò scolarmi una bottiglia, per forza di cose. Ho preso un rosso, un bianco e un rosé. Così, per non sbagliare.
La meta
Il supermercato resta la mia stella polare, il buon pastore che mi approvvigiona