Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

I luoghi dell’amore

- Di Vladimiro Bottone Ricerca iconografi­ca a cura di Antonio Biasiucci

Non riesco più a passare nei posti dove siamo stati insieme. Una condanna, dirai. D’altra parte tu stessa sei una condanna per me (e io per te, naturalmen­te: che razza di anime gemelle saremmo, altrimenti?).

Non riesco più a passare nei posti dove siamo stati insieme, non ce la faccio. Quei luoghi dove siamo stati felici, infelici, indicibilm­ente felici, incredibil­mente infelici. Dove, nel bene e nel male, esistevamo noi e la realtà serviva come sfondo, un pretesto scenografi­co funzionale solo perché io e te esistessim­o al massimo grado di amore e odio, fusione e inimicizia. Luoghi magnifici dove noi prendevamo il volo al mattino, tenendoci per mano come angeli, per andare a fondo la sera, come due anime dannate. Ecco: adesso che te l’ho confidato mi sento un po’ meglio. Ce lo siamo detti: scrivere significa prendere le distanze, mettere ordine, oggettivar­e. Così ora, mentre infittisco di caratteri lo schermo, riesco perfino a scherzare con questa mia ennesima impossibil­ità.

Non riesco più a passare nei posti dove siamo stati insieme. Il che vuol dire, in fondo, che tornare a Napoli è inimmagina­bile. Me l’avevi fatta riscoprire tu, la mia città non più mia. Mi hai riportato alla mente la lingua madre, modi di dire che adesso, per me, fanno corpo con il ricordo del tuo corpo e sono indissocia­bili da esso. Ho un blocco insuperabi­le a tornare, a tornare sui miei passi, sui nostri passi. Non che non abbia provato con la volontà (e tu sai che ho una volontà di ferro, quando voglio). Eppure, prima di prenotare un passaggio aereo, mi figuravo di ripassare, da solo, in quei posti che io associo a te, che legano me a te. La Sanità, erano anni che non ci mettevo piede. L’abbiamo percorsa tenendoci per mano oppure sotto braccio oppure baciandoci sotto i portoni di palazzi nobiliari, quei palazzi deturpati da abusi ormai eterni come il loro impianto originale. Sono state formulate delle promesse, in quei posti dove non riuscirei più a passare e che non riesco più a dimenticar­e. Dimenticar­e,

però, significa sempre falsificar­e una storia. E io non voglio fare di te e me un falso, non voglio censurare, raschiare via, dimenticar­e appunto.

Non posso dimenticar­e, questo è il punto. Allora, prima di completare la transazion­e per il volo, ricontroll­o la mia possibilit­à di ritornare incolume, così come si verifica con un’ultima occhiata i bagagli, prima di partire. E mi dico: immagina di essere a Toledo, senza di lei al tuo braccio (lei la volubile, la figlia della luna, la creatura dalla pelle lunare). E io mi figuro di rimanere a un certo punto lì, paralizzat­o dal dolore in mezzo a quella folla che non ti dà mai tregua. Loro vivono, masticano, telefonano, urlano, si baciano, scherzano perfino. E io mi immagino lì, piantato come un albero di città in mezzo a tutta quell’oscena vitalità, a tutta quella perenne musica da marciapied­e. Non riuscirei a muovere più un passo, se mi azzardassi a tornare senza di te dove siamo stati insieme. Hai ragione: è una condanna. Dovrei farmene una ragione, dici? Eh, ma sai: a volte si perde l’uso della ragione a furia di volersene fare una ragione. E così sto rimuovendo Napoli dalla piccola geografia della mia vita, dopo che hai espulso me dalla tua. A Procida è escluso che possa sbarcare: non ritroverei più te ad attendermi sul molo, tu con il tuo corpo sontuoso, con quel tuo abito che ricordava i Tropici, la dimensione della smemoratez­za, il solito auto-inganno. Oggi sarebbe straniante attraversa­re la passerella del traghetto e non vedere

Evitamenti

Non riesco più a passare nei posti dove siamo stati felici insieme. Tornare a Napoli è inimmagina­bile più te, sulla banchina. Non avevi agitato la mano, la tua mano dalla bellezza fiorentina. In compenso sorridevi, con un’onnipotenz­a che aveva aperto le nubi. Adesso? Adesso troverei un vuoto che mi riempirebb­e il petto, me lo dilaterebb­e, lo spacchereb­be. Un vuoto gelido, qualcosa che rimanda all’ibernazion­e. Sì, ad una forma di angosciosa vitanon vita fra la veglia e il sonno, fra la morte e il sonno. Così ho cancellato anche la piccola isola dalle mie rotte. Oramai ho un atlante mentale costellato di crocette, eppure è difficile metterci una croce sopra. Erano anni che non godevo più il lungomare, la sua bellezza a cui i locali non fanno forse manco più caso. È grazie a te che ho potuto viverlo, dormendo e amando alla stessa altezza dei gabbiani, del loro volo radente a pochi metri dalla porta-finestra. Lì mi ha fatto scoprire una canzone (che indegno ero

a non conoscerla, sì proprio un figlio indegno della lingua-madre dal cui grembo nasco).

‘E cerase, così si chiamava, si chiama, si chiamerà per sempre. L’abbiamo ballata insieme, tu eri nuda, folle e figlia più che mai di un altro mondo. Avevi la pelle levigata, ancora calda della luce del giorno. Era sera, anzi notte. Avevamo mandato via tutti: solo te ed io su una terrazza favolosa con, davanti, castel dell’Ovo e le luci che sgranavano la linea di costa.

‘E cerase, effettivam­ente la tua bocca è succulenta come una ciliegia – e ugualmente sanguinosa, ugualmente dolce come il sangue (del resto ci siamo comportati come due cannibali, no?). Tu sei sempre stata musica, a me sembrava di ballare allacciato alla musica, stringendo la tua vita io cercavo di afferrare la vita a cui non eravamo destinati. Questo è troppo, credimi: veramente troppo anche per la scrittura, per me. Abbiamo scattato delle foto, lì accanto alla scogliera e sulla piccola isola. Non ho più la forza di rivederle. In una ho i tratti distesi e dolci che non ho mai posseduto, nemmeno da bambino. Nell’altra siamo su certi gradini, tu mi posi la testa sulla spalla. Non ho la forza di rivivere – e neppure quella di vivere, se è per questo. Solo una volta ho ripescato quelle foto. Ho dovuto attaccarmi alla bottiglia, bere a canna per non ridurmi alla canna del gas.

E così cancello luoghi dalle mie mappe, sotterro foto, rimpicciol­isco il mio passato (e, con esso, presente e futuro). Mi vieto di ascoltare anche la nostra canzone elisabetti­ana, il nostro Dowland sempre dolente. Forse ti ho lasciata entrare troppo dentro, troppo in profondità. Tu sei una lama forgiata da poco, una lama troppo forte e flessibile. Lo sapevo che quando ti fossi ritratta dalle mie viscere, ti saresti lasciata dietro, avresti lasciata dentro una devastazio­ne. Mi guardo le mani: sono tutte rosse. So che le ferite non ti fanno paura, in ogni caso ti rassicuro lo stesso. Credo sia solo succo di ciliege, ‘e cerase. In ogni caso non è facile, ti assicuro. Non è facile in questi casi.

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