Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Donne del mistero
All’inizio mi era sembrato uno sbruffone qualsiasi. Uno di quei miei conterranei che, nel vagone sonnolento di un Frecciarossa partito al primo chiarore, impongono agli altri la loro presenza vocale, la loro vita privata, i loro modi scherzosi con gli amici. Il suo posto era situato due file dietro le mie spalle. Nel giro di un’ora conoscevo abbastanza della sua vita trascorsa in cattività durante gli ultimi quindici anni, quelli a monte della semilibertà che stava iniziando ora.
Da quanto potevo ricostruire, si trattava della prima vacanza premio; a una delle sue interlocutrici telefoniche, lui aveva parlato di un obbligo di firma, presso il commissariato di Secondigliano. E comunque Salvatore, diamogli questo nome, intendeva goderla fino in fondo questa ritrovata libertà. Perciò, dallo sfrecciare del treno, contattava una ragazza dietro l’altra. Io orecchiavo, la nuca aderente al poggiatesta. A tutte rimarcava l’impresa della laurea, conseguita dietro le sbarre; ne era fiero, ma senza spacconeria. Forse era anche questo genere di orgoglio per la recente acculturazione che gli vietava il ricorso a termini sguaiati. Pareva che li avesse espunti dal suo lessico; restava la cadenza, certo, ma quella non può estirparcela nessuno. Con le sue interlocutrici cinque o sei in altrettante ore di viaggio, in altrettante lunghe chiamate - gli capitava di esaltare il proprio aspetto, con uno strano candore. Peraltro, obiettivamente, non mentiva: mi ero voltato un paio di volte a sbirciare, lui poteva ricordare Andy Garcia fra i trenta e i quaranta, con il volto incorniciato da una barba nera come i capelli (quel corvino lustro molto ispanico e meridionale).
Non nascondo che, inizialmente, la sua logorrea mi aveva urtato. Avrei voluto immergermi nel mio libro ammazza-tempo, un romanzo fin troppo ben costruito che stentava a imprigionarmi. Poi la sua biografia dal vivo, sciorinata come un gioco a carte scoperte, aveva avuto la meglio. Salvatore si presentava a ognuna senza tacere lo status di semilibero, dunque di parziale prigioniero dei suoi precedenti.
Il genere di reato lo si poteva dedurre con un computo piuttosto semplice, definitivo come una lapide. Quindici anni di galera scontata, da sommarsi agli otto dell’appena cominciata semilibertà, davano come risultato ventitré anni di pena complessiva. L’espiazione dovuta per un omicidio. Dunque l’uomo che conversava dietro di me aveva spento una vita. Mai però, nell’accettare a ogni donna della sua detenzione, Salvatore faceva balenare un sentimento di rivolta, di recriminazione per la condanna. Lui la sopportava. Lui aveva accettato sia il fatto, sia la pena che glielo faceva scontare. Adesso, in nome di quella stessa Legge, lui tornava a un regime di esistenza sopportabile perché permetteva delle aspettative. E le aspettative, la libertà, la vitalità si racchiudono, per un uomo, nell’idea concreta della donna. E tuttavia non trapelava mai, da Salvatore, la foia compulsiva, febbrile degli astinenti di vecchia data. Al contrario, quelle sue chiamate dal treno si ispirava a un registro sentimentale da corteggiatore ragazzo. Da possibile innamoramento al tavolo di un ristorante panoramico, o durante una passeggiata mano nella mano sul lungomare. Insomma: sembrava riaffiorare il romanticismo naif dei suoi vent’anni, quelli che lui aveva scelto di non vivere (sì: noi dobbiamo credere che il libero arbitrio esista e che sia il cardine di ogni possibile società).
Ma chi erano poi, di fatto, le destinatarie di quelle sue sdolcinatezze telefoniche e a piena voce? Delle creature irrisolte, problematiche, dannose a sé stesse, supponevo. Di quelle che affollano Tinder per il brivido dell’ignoto, più che per desiderio. Tante Emma Bovary in versione emancipata, disposte a tutto pur di non morire dalla noia. Quindi inclini anche a flirtare con un un ex criminale, con il suo passato oscuro di carnefice e vittima dell’esistenza. Mi dicevo: sì, un certo bovarismo può incuriosirsi, infatuazione di tutto questo. Anche perché Salvatore non si poneva mai come una minaccia, non mostrava mai scatti rabbiosi nella voce. Poteva sembrare una vittima di sé stesso e vellicare, così, tanto il senso dell’avventura che un certo sentimento materno. Poi una mezza frase mi aveva istigato un dubbio: «non ti preoccupare, io non sono geloso del lavoro che fai». Un’uscita pronunciata con una sfumatura complice: noi due siamo dei disprezzati, solo noi due possiamo comprenderci veramente. Parlava con delle escort, dunque?
Le signore
Chi erano le destinatarie di quelle sue sdolcinatezze telefoniche?