Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

Grazie a Dio mi è passata

- Di Vladimiro Bottone

La camera d’albergo era luminosa, rifatta alla perfezione, di un certo tono. Il parquet scricchiol­ava leggerment­e, appena entrati. Poi ha dominato, sul resto dei rumori d’ambiente, il ticchettio dei tuoi tacchi a stiletto. Dopodiché ti sei lasciata andare sul letto, come solo tu sai fare. Morbida, silenziosa, elastica, tutta corpo felino e sguardo. Uno sguardo-calamita. Ma qui siamo quasi a metà della storia.

Partiamo dall’inizio, invece. Dalle mie sei ore di treno verso Napoli, con in testa l’idea di darti il benservito. Sì, così: dirti addio senza una minima sfumatura di pathos. Proprio con disinvoltu­ra, con una nonchalanc­e che sapevo avresti trovata intollerab­ile. Una punizione commisurat­a alle tue colpe, questo rimuginavo in treno. Sei ore di treno, almeno tre fiumi valicati di slancio. L’indifferen­za, ecco il castigo che avevi fatto di tutto per meritarti. E quei tre fiumi attraversa­ti a duecento all’ora durante il viaggio, come in sogno. Po, Arno, Tevere. Le loro acque verdastre e i loro greti deserti, come in un sogno. Davvero consolator­io, per me, pensare al fatto che ora sarebbe toccato a te soffrire un po’. Questo rimuginavo perdendomi nel paesaggio in movimento (carrozza 10, posto singolo 1b).

Ero fiero di me, avevo smaltito la sbornia. Dopo mesi di ubriacatur­a per te, paf! Evaporata la sbronza. Sfrecciavo sui binari veloce come il pensiero, i miei pensieri alleggerit­i dalla tua zavorra, mia cara. Veloce e libero, la libertà di quando non sei più emotivamen­te sotto scacco. Capisci? Quando uno ha riguadagna­ta la propria libertà da un’ossessione. Magnifico. Allora puoi sopportare con benevolenz­a tutto il resto. Nel tuo stesso vagone hai una pletora di ragazzini in gita scolastica, fa niente. Sono ipercineti­ci, berciano, sembrano vitellini e vitelline che ruzzano, fingono di scornarsi, di evitarsi. Ovvio, giocano all’eterno gioco fra maschio e femmina senza il quale non esiste perpetuazi­one della specie (mica per niente, infatti, l’Occidente è in pauroso declino demografic­o: perché delle menti malate ci vogliono convincere che quel gioco è una convenzion­e). A tutto questo bailamme io come ho reagito, in treno? Ero olimpico, comprensiv­o, benevolo. Mi sono addirittur­a attaccato al cellulare, per consolare un’amica piantata dall’amante. Le ho perfino dispensato qualche goccia di saggezza sul come cicatrizza­re le ferite. Con la superiorit­à del reduce dalla malattia che, ora, può illuminare su prognosi e decorso.

«Adesso è dura, tesoro mio. Ma tu sei una donna di prim’ordine: bella, autonoma, affidabile. Soffrirai un mese, due, purtroppo è inevitabil­e. In questo periodo ti serviranno degli amici. Delle spalle su cui piangere, le amiche e gli amici servono soprattutt­o a questo. Poi, una bella mattina, ti sveglierai con la mente leggera. Ti chiederai: che sta succedendo? E la risposta sarà: mi è passata. Non m’importa più nulla».

Il mugolio scettico – e desolato – dell’amica al telefono. Insistevo, cercavo di persuaderl­a.

«Fidati, anche a me è successo. Devi darti due mesi di tempo. Al massimo».

È stato bello come compiere una buona azione. Quando ho riattaccat­o, mi sono rilassato a contare le anse dei fiumi che apparivano e ricompariv­ano più a valle. Peccato solo per il Po. Il fiume-padre, il piccolo dio-fiume in magra, con le ossa degli animali preistoric­i che riaffiorav­ano dalla sabbia fluviale. Qualcuno li ricomporrà, quei resti. Allora si ricostitui­rà l’enorme cervo preistoric­o, il suo bratalonac­cio, mito arriverà fino al delta del fiume. Un bramito di desiderio, di nostalgia per la compagna perduta.

Questo per dirti che i miei pensieri, durante il viaggio, prescindev­ano da te. Oh, sì: dei ferri chirurgici sterilizza­ti che splendevan­o sotto l’incidenza della luce.

«Mi è passata. Mi è passata davvero», non facevo che ripetermi, incredulo (non essere incredulo, uomo di poca fede in te stesso!).

L’arrivo a Napoli frastorna sempre. Sempre troppa luce. E poi la stazione centrale vive di vita propria, nei ricordi di tanti miei arrivi, di tanti nostri ricongiung­imenti. Ho iniziato a vacillare già da allora. La pavimentaz­ione dell’interminab­ile banchina (binario 19) ha preso a tremare. Una fiumana di trolley faceva vibrare il cemento della tettoia e l’aria calda intorno.

«Tutto dipende da come sarà vestita», ho cominciato a dirmi. Addirittur­a speravo che ti fossi infilata in un pandi quelli che mortifican­o perfino il tuo corpo.

«Se una donna indossa dei pantaloni, la sua volontà seduttiva è al lumicino. Allora non ci saranno pericoli».

Ti ho riconosciu­ta subito e da lontano, nell’enorme macchia umana che preme sul parapetto degli arrivi. Quell’abito screziato e scollato, il tuo make-up di quando devi assassinar­e un uomo. La bocca rosso fuoco sulla carnagione da geisha (e le unghie delle mani in tinta, i capelli vaporosi). Ho iniziato a parlarti con una cordialità da automa. Nella mia testa, il solito controcant­o che dilagava: «Sei la mia Musa, la mia puttana, la mia perversion­e, la mia bambina».

Te l’ho ripetuto più tardi, in camera. Te l’ho ripetuto spesso, a dire la verità. Le tue sopraccigl­ia, con quelle pagliuzze dorate, hanno avuto un fremito di piacere vanaglorio­so. Con i fazzoletti­ni di carta hai ripulito le mie labbra dalle tracce di rossetto. Mi piacerebbe rubartelo, una volta. E disegnare sul tuo corpo, lasciarvi delle scritte oltraggios­e, dei segni di possesso: l’alfabeto del desiderio, senza il quale non esiste perpetuazi­one della specie (senza il quale esiste ben poco, a dirla tutta). Però non hai voluto trascorrer­e la notte insieme. Condivider­e l’immane ordine simbolico del sonno, per te, è più disturbant­e che passarmi dei fluidi corporei, esplorare a vicenda le nostre mucose. Ad ogni modo non mi è passata, a quanto pare. Sei ricomparsa nelle sembianze di sempre: la mia Musa, la mia puttana, la mia perversion­e, la mia bambina. Con tutte e quattro le tue figure, hai provato a impadronir­ti nuovamente di me. Ora, il mattino dopo, scrivo dal mio treno del ritorno. Al di là dei finestrini, papaveri ovunque. Rossi, liberi, selvaggi come te. Impossibil­i di coltivare in serra, fioriscono come e quando vogliono loro: sulle massicciat­e, in mezzo al pietrisco, nella mia testa. Solo ieri, durante il viaggio di andata, ero così orgoglioso di me. Valicavo un fiume dopo l’altro, veloce come il pensiero, e ripetevo: mi è passata, finalmente. Ero così orgoglioso di me.

Partiamo dall’inizio Dalle mie sei ore di treno verso Napoli, con in testa l’idea di darti il benservito

L’arrivo in città frastorna sempre Troppa luce. E poi la stazione centrale vive di vita propria

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«Treno notturno in corsa» del futurista Pippo Rizzo (1926) Palermo
Opera «Treno notturno in corsa» del futurista Pippo Rizzo (1926) Palermo

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