Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Grazie a Dio mi è passata
La camera d’albergo era luminosa, rifatta alla perfezione, di un certo tono. Il parquet scricchiolava leggermente, appena entrati. Poi ha dominato, sul resto dei rumori d’ambiente, il ticchettio dei tuoi tacchi a stiletto. Dopodiché ti sei lasciata andare sul letto, come solo tu sai fare. Morbida, silenziosa, elastica, tutta corpo felino e sguardo. Uno sguardo-calamita. Ma qui siamo quasi a metà della storia.
Partiamo dall’inizio, invece. Dalle mie sei ore di treno verso Napoli, con in testa l’idea di darti il benservito. Sì, così: dirti addio senza una minima sfumatura di pathos. Proprio con disinvoltura, con una nonchalance che sapevo avresti trovata intollerabile. Una punizione commisurata alle tue colpe, questo rimuginavo in treno. Sei ore di treno, almeno tre fiumi valicati di slancio. L’indifferenza, ecco il castigo che avevi fatto di tutto per meritarti. E quei tre fiumi attraversati a duecento all’ora durante il viaggio, come in sogno. Po, Arno, Tevere. Le loro acque verdastre e i loro greti deserti, come in un sogno. Davvero consolatorio, per me, pensare al fatto che ora sarebbe toccato a te soffrire un po’. Questo rimuginavo perdendomi nel paesaggio in movimento (carrozza 10, posto singolo 1b).
Ero fiero di me, avevo smaltito la sbornia. Dopo mesi di ubriacatura per te, paf! Evaporata la sbronza. Sfrecciavo sui binari veloce come il pensiero, i miei pensieri alleggeriti dalla tua zavorra, mia cara. Veloce e libero, la libertà di quando non sei più emotivamente sotto scacco. Capisci? Quando uno ha riguadagnata la propria libertà da un’ossessione. Magnifico. Allora puoi sopportare con benevolenza tutto il resto. Nel tuo stesso vagone hai una pletora di ragazzini in gita scolastica, fa niente. Sono ipercinetici, berciano, sembrano vitellini e vitelline che ruzzano, fingono di scornarsi, di evitarsi. Ovvio, giocano all’eterno gioco fra maschio e femmina senza il quale non esiste perpetuazione della specie (mica per niente, infatti, l’Occidente è in pauroso declino demografico: perché delle menti malate ci vogliono convincere che quel gioco è una convenzione). A tutto questo bailamme io come ho reagito, in treno? Ero olimpico, comprensivo, benevolo. Mi sono addirittura attaccato al cellulare, per consolare un’amica piantata dall’amante. Le ho perfino dispensato qualche goccia di saggezza sul come cicatrizzare le ferite. Con la superiorità del reduce dalla malattia che, ora, può illuminare su prognosi e decorso.
«Adesso è dura, tesoro mio. Ma tu sei una donna di prim’ordine: bella, autonoma, affidabile. Soffrirai un mese, due, purtroppo è inevitabile. In questo periodo ti serviranno degli amici. Delle spalle su cui piangere, le amiche e gli amici servono soprattutto a questo. Poi, una bella mattina, ti sveglierai con la mente leggera. Ti chiederai: che sta succedendo? E la risposta sarà: mi è passata. Non m’importa più nulla».
Il mugolio scettico – e desolato – dell’amica al telefono. Insistevo, cercavo di persuaderla.
«Fidati, anche a me è successo. Devi darti due mesi di tempo. Al massimo».
È stato bello come compiere una buona azione. Quando ho riattaccato, mi sono rilassato a contare le anse dei fiumi che apparivano e ricomparivano più a valle. Peccato solo per il Po. Il fiume-padre, il piccolo dio-fiume in magra, con le ossa degli animali preistorici che riaffioravano dalla sabbia fluviale. Qualcuno li ricomporrà, quei resti. Allora si ricostituirà l’enorme cervo preistorico, il suo bratalonaccio, mito arriverà fino al delta del fiume. Un bramito di desiderio, di nostalgia per la compagna perduta.
Questo per dirti che i miei pensieri, durante il viaggio, prescindevano da te. Oh, sì: dei ferri chirurgici sterilizzati che splendevano sotto l’incidenza della luce.
«Mi è passata. Mi è passata davvero», non facevo che ripetermi, incredulo (non essere incredulo, uomo di poca fede in te stesso!).
L’arrivo a Napoli frastorna sempre. Sempre troppa luce. E poi la stazione centrale vive di vita propria, nei ricordi di tanti miei arrivi, di tanti nostri ricongiungimenti. Ho iniziato a vacillare già da allora. La pavimentazione dell’interminabile banchina (binario 19) ha preso a tremare. Una fiumana di trolley faceva vibrare il cemento della tettoia e l’aria calda intorno.
«Tutto dipende da come sarà vestita», ho cominciato a dirmi. Addirittura speravo che ti fossi infilata in un pandi quelli che mortificano perfino il tuo corpo.
«Se una donna indossa dei pantaloni, la sua volontà seduttiva è al lumicino. Allora non ci saranno pericoli».
Ti ho riconosciuta subito e da lontano, nell’enorme macchia umana che preme sul parapetto degli arrivi. Quell’abito screziato e scollato, il tuo make-up di quando devi assassinare un uomo. La bocca rosso fuoco sulla carnagione da geisha (e le unghie delle mani in tinta, i capelli vaporosi). Ho iniziato a parlarti con una cordialità da automa. Nella mia testa, il solito controcanto che dilagava: «Sei la mia Musa, la mia puttana, la mia perversione, la mia bambina».
Te l’ho ripetuto più tardi, in camera. Te l’ho ripetuto spesso, a dire la verità. Le tue sopracciglia, con quelle pagliuzze dorate, hanno avuto un fremito di piacere vanaglorioso. Con i fazzolettini di carta hai ripulito le mie labbra dalle tracce di rossetto. Mi piacerebbe rubartelo, una volta. E disegnare sul tuo corpo, lasciarvi delle scritte oltraggiose, dei segni di possesso: l’alfabeto del desiderio, senza il quale non esiste perpetuazione della specie (senza il quale esiste ben poco, a dirla tutta). Però non hai voluto trascorrere la notte insieme. Condividere l’immane ordine simbolico del sonno, per te, è più disturbante che passarmi dei fluidi corporei, esplorare a vicenda le nostre mucose. Ad ogni modo non mi è passata, a quanto pare. Sei ricomparsa nelle sembianze di sempre: la mia Musa, la mia puttana, la mia perversione, la mia bambina. Con tutte e quattro le tue figure, hai provato a impadronirti nuovamente di me. Ora, il mattino dopo, scrivo dal mio treno del ritorno. Al di là dei finestrini, papaveri ovunque. Rossi, liberi, selvaggi come te. Impossibili di coltivare in serra, fioriscono come e quando vogliono loro: sulle massicciate, in mezzo al pietrisco, nella mia testa. Solo ieri, durante il viaggio di andata, ero così orgoglioso di me. Valicavo un fiume dopo l’altro, veloce come il pensiero, e ripetevo: mi è passata, finalmente. Ero così orgoglioso di me.
Partiamo dall’inizio Dalle mie sei ore di treno verso Napoli, con in testa l’idea di darti il benservito
L’arrivo in città frastorna sempre Troppa luce. E poi la stazione centrale vive di vita propria