Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
UN PREMIO AGLI ATENEI DEL SUD
Anche quando si parla di Università sui giornali, vivere al Sud o al Nord fa una differenza enorme. Se vivete in una città del Settentrione probabilmente ascolterete l’opinione di grandi studiosi come Boeri e Perotti, che mettono in evidenza come il meccanismo di redistribuzione delle risorse vigente basato sul merito degli atenei (principalmente l’efficienza nella ricerca) è inefficace, perché premia pochissimo le eccellenze, generando una distribuzione di risorse troppo egualitaria, implicitamente a beneficio degli atenei meridionali. Se vivete al Sud invece, probabilmente sarete ferreamente convinti che i meccanismi di finanziamento e in particolare la valutazione della ricerca in questi anni hanno impoverito in maniera insopportabile gli atenei meridionali, redistribuendo risorse a favore di quelli del Nord e che le cose non possono che peggiorare per effetto di circoli viziosi endogeni. Se hai meno finanziamenti peggiorerà all’infinito la tua situazione.
Entrambe queste tesi si basano sugli stessi dati, ma l’interpretazione differisce grandemente. Probabilmente c’è qualcosa che non va in entrambe. Da un lato è vero che la diseguaglianza di finanziamenti premiali non è particolarmente forte, ma la quota premiale di finanziamenti in Italia è altissima (1/3 circa) più di altri Paesi meritocratici (Regno Unito). Peraltro non si capisce perché lo Stato dovrebbe inondare di danaro pubblico delle cosiddette eccellenze, che possono senz’altro finanziarsi privatamente.
Lo scopo dei trasferimenti pubblici deve essere quello di far godere i cittadini, preferibilmente tutti e di tutte le aree del paese, di una università adeguata. E i meccanismi di incentivo non sono premi o punizioni fine a sé stessi, ma metodi per migliorare il funzionamento delle istituzioni. E qui veniamo alla tesi sudista. Lo scopo della spesa pubblica non è nemmeno quello di distribuire le risorse proporzionalmente a tutti, ma di spingere le università a migliorarsi nell’interesse delle popolazioni delle aree in cui sono situate, soprattutto quelle delle aree svantaggiate. È per questo che un sistema di distribuzione di risorse non può prescindere da un meccanismo di valutazione. Questo però funziona se ha la capacità di migliorare la qualità delle stesse Università, soprattutto quelle delle aree svantaggiate. Il sistema in essere funziona in rapporto a questo obiettivo?
La valutazione appena pubblicata da Anvur per il periodo 2015-19 ci fornisce una risposta interessante a questo proposito. Tra le altre tabelle, una in particolare mostra il rapporto tra l’indice di qualità della ricerca dei ricercatori nuovi assunti e quello del personale docente in servizio al 2015. Con una certa approssimazione questo rapporto ci descrive il tasso di miglioramento della qualità della ricerca, e Anvur gli ha opportunamente dato un certo rilievo. La prima osservazione è che su 93 università sono solo 8 quelle con un rapporto minore di uno, che indica un reclutamento peggiore del personale esistente. Ancor più interessante è la lista degli atenei il cui rapporto è superiore a 1,15 (ovvero che col reclutamento hanno migliorato la loro qualità della ricerca rispetto al passato di più del 15%). Limitandoci agli atenei di una certa rilevanza si tratta di Palermo, Bari, Catania, Teramo, Bolzano e Bocconi. Miglioramenti di poco inferiori li segnano tra gli atenei meridionali anche Sassari, Università della Calabria, Reggio Calabria e Molise.
Non si tratta ovviamente di esibire inutili e assurdi trionfalismi, la valutazione degli atenei meridionali rimane scarsa perché le istituzioni cambiano lentamente; la pesante eredità del passato non può che pesare ancora per decenni. Inoltre è più facile migliorare se si parte dal basso. Ma si tratta di ammettere che forse i meccanismi di incentivo funzionano. Dei migliori nuovi ricercatori beneficeranno i giovani meridionali, in particolare quelli che non possono permettersi l’Università a Milano. Il sistema quindi, nei limiti delle imperfezioni umane, funziona.
Rimangono invece da affrontare problemi di compensazione della minore capacità contributiva degli studenti meridionali, come opportunamente suggerito da un recente lavoro della Banca d’Italia di Torrini e Mariani. Un tentativo ad hoc era stato fatto per la prima volta dal Decreto Mezzogiorno del ministro De Vincenti nel 2017. La compensazione strutturale invece potrebbe avvenire con l’istituzione di una quota riservata al Mezzogiorno, da assegnare ancora in maniera premiale in maniera tale da generare una competizione interna. In fondo quello che dobbiamo augurarci non è la fine della mobilità universitaria ma solo della sua unidirezionalità e dell’assenza di mobilità interna al meridione.