Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Quel bisogno d’amore che ha Foggia
La memoria è una coperta, chi la evoca è il primo a esserne rimasto senza. Come quei foggiani che rispondendo al radio anatema di Giuseppe Cruciani («Foggia è la città più brutta d’Italia, insieme a Catanzaro»), hanno dimenticato di custodire in bacheca un precedente ben più illustre del conduttore de La Zanzara. Alberto Moravia, che nel 1971 ospite del teatro Ariston e di fronte a centinaia di foggiani sgomenti, esordì dicendo che «si trovava nella città più brutta al mondo, insieme a Calcutta e La Paz»: una bestemmia a cui pochi giorni dopo rispose Giorgio Manganelli sul Corriere della Sera, difendendo città e territorio «che trovo tra i più accoglienti e sinceri d’Italia».
Prima ancora era toccato a Giorgio Bocca («Foggia sembra una città abortita») e Giuseppe Cassieri («anche gli aborti raccontano di una certa umanità, chi scrive dovrebbe saperlo»), senza che nessuno si fosse mai ricordato di passare dalla casella del via. Che per i foggiani – per quei pochi che con la memoria hanno un conto in pari – restano le parole laviche con cui Giuseppe Ungaretti definì il Piano delle Fosse: «Nessun luogo come questo avrebbe diritto di essere dichiarato monumento nazionale».
La memoria è una coperta, chi la tira dal lato dell’orgoglio sbaglia a dare troppo peso alle parole di un provocatore nel pieno esercizio delle sue funzioni. Ma sbaglia anche chi la tira dal lato dell’assoluzione preventiva, perché Foggia è oggettivamente – al di là di ogni auto commiserazione
– una città priva di un’estetica compiuta e di un’armonia urbanistica davvero consapevole. Una città (la terza di Puglia, questo è il tema) in cui si progetta un aeroporto senza che ci sia una strada con cui andarci, in cui chiunque arrivi da qualsiasi destinazione è travolto dalla sensazione di essere stato riportato al secondo dopoguerra. Al di là degli anatemi e delle indignazioni populiste che nulla lasciano alla storia, la domanda che nessuno osa porre (e invece dovrebbe) è se la commissaria Marilisa Magno non provi un po’ di imbarazzo a rappresentare (così fatalisticamente, così prefettiziamente) una città che invece avrebbe un disperato bisogno di essere amata.