Corriere del Mezzogiorno (Puglia)

GLI ESAMI DA FARE ALLO STATO

- Di Giancarlo Visitilli

Di quelle cantate da Antonello Venditti ci son rimaste le «notti di mamme e di papà col biberon in mano, notte di nonne alla finestra», perché i pargoli maturandi si affidano a loro, a quelli che per cinque anni sono venuti dietro le porte delle presidenze e delle aule docenti, solo per chiedere: «Che voto ha dato a mio figlio?», oppure «posso sapere perché mia figlia ha avuto quattro?». E tutto ciò, fino a queste ultime notti prima degli esami, che precedono un momento importante nella vita di tante studentess­e e studenti. Li ho sempre immaginati come su un trampolino, con sotto di loro vasche piene, ma anche con gli abissi. In alcuni casi ho fantastica­to salvagenti, materassi, che attutisser­o i colpi di chi nei prossimi giorni dovrà mettere i piedi in terra, tenerli ben saldi e dirsi: «Da mo vale». E allora, a differenza degli incubi degli studenti, io, da ventitrè anni che insegno e faccio esami di Stato, ho sempre sognato che, alla fine dei cinque anni, le ragazze e i ragazzi, data anche la maggiore età, possono votare, sono patentati, potessero fare gli esami allo Stato. Si tratta del passaggio dalla specificaz­ione al termine. E quel complement­o è necessario, indispensa­bile, per misurare la maturità dei nostri uomini e donne, pronti per affrontare la vita. Gli esami allo Stato io li sogno esattament­e come il contrario degli esami di Stato. Perché in quest’ultimo caso, specie negli ultimi tre anni, ci siam ridotti a ratificare i voti. Noi, i docenti stessi, gli interni, delle classi degli esaminandi.

Che senso ha una seduta in cui io medesimo ratifico il voto del compito scritto di italiano, se lo stesso, la studentess­a o lo studente l’ha svolto per anni con me? Cosa può cambiare dal mio giudizio e della mia valutazion­e, che io e lui/lei, non conosciamo già? Sarebbe più utile che ci fosse un altro collega, esterno, che valutasse anche il mio stesso lavoro di insegnante. E invece no. Tutto tende al risparmio, nella scuola.

Anzi, quest’anno, giusto per dare un’aria di serietà, il ministro ha voluto ripristina­re la seconda prova. Anche questa, preparata dallo stesso docente interno. Come se non gli fosse bastato leggere, correggere e valutare i già due, tre compiti scritti e svolti durante almeno quest’ultimo anno dai suoi studenti. E poi c’è l’orale. La maledettis­sima tesina, percorso, ricerca. Non si capisce. Fatto sta che, ormai, le stesse “tesineperc­orsiricerc­he”, noi docenti raramente le guardiamo prima degli esami: sono robe trite e ritrite, tramandate da cugini dei cugini, trisavoli e avi. E allora l’esame allo Stato io lo sogno così: seduta con docenti interni, visto che con la scusa dell’emergenza sanitaria, in tal modo si risparmia. Tutti schierati, magari in cerchio (fa moda eliminare le distanze di cui non devono avere paura gli esaminandi pargoli) e dinanzi a noi la studentess­a, che almeno con ciascuno di noi c’è stata tre anni, che mi interpella su quanto le abbia lasciato nella sua esistenza, rispetto alle emozioni, alle scoperte di autori che non conosceva, che mi dica di quanto sia stata interessat­a dall’incontro nei cinema con quel regista, insieme all’attrice che in teatro le ha mostrato, e quindi fatto studiare, Medea. Sogno che gli studenti, alla fine della seduta, dopo averci detto ciò che prendono e portano via, e chissà quanto lascerebbe­ro a scuola, facessero loro gli esami a noi docenti, che lì siamo lo Stato: quanto vi abbiamo dato, cosa abbiamo lasciato in voi, visto che avete l’ardire di in-segnarci dentro? Lascerei agli esterni, in questo caso ai lettori, la valutazion­e di noi e di loro, che finalmente maturi, ci saremmo fatti Stato.

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