Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
SEDAZIONE ASSISTITA, PERCHÉ «SÌ» ALLA PROPOSTA DI AMATI
Della legge statale numero 219 del 2017 – che riconobbe il diritto di essere informati sulle proprie condizioni di salute, su benefici e rischi dei trattamenti sanitari, di rinunciare ai medesimi, anche a quelli di sostegno vitale, di essere sottoposto a terapie del dolore, compresa la sedazione palliativa profonda continua, e vietò «ogni ostinazione irragionevole nelle cure» – si disse che era una «buona legge buona». Altrettanto si potrebbe dire – se approvata dal Consiglio regionale, con alcuni correttivi su cui, qui, non è possibile soffermarsi – della legge in materia di «assistenza sanitaria per la morte serena e indolore di pazienti terminali» proposta dal consigliere Fabiano Amati e sottoscritta da altri cinque.
Lo scopo è assicurare ai pazienti terminali «un congedo dalla vita senza dover subire il medesimo destino però aggravato da un processo più lento e doloroso» impegnando le strutture del servizio sanitario regionale a fornire «tutta la più adeguata assistenza per conseguire uno scopo, la morte, fonte di minore afflizione e sofferenza rispetto ad ogni cura». La proposta non definisce nuovi diritti, né poteva farlo. Questa è materia del Parlamento, che però da anni non riesce a legiferare sul «fine vita» nonostante il favore espresso sul tema da un vasto fronte dell’opinione pubblica. Né hanno sortito risultati gli interventi della Corte costituzionale che, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del delitto di istigazione o aiuto al suicidio (caso Cappato–Antoniani, Dj Fabo), prima sospese il giudizio ritenendo «doveroso consentire al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa» (ordinanza numero 207 del 2018) e poi, caduto nel vuoto il richiamo, si è pronunciata con la sentenza n. 242 del 22 novembre 2019.
La Corte ha individuato una specifica fattispecie di non punibilità dell’aiuto al suicidio, in presenza di quattro concomitanti condizioni: il soggetto aiutato deve essere una persona (1) affetta da una patologia irreversibile, (2) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, (3) tenuta in vita con trattamenti di sostegno vitale e (4) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.Tra il riconoscimento, con la legge 219/2017, del diritto al rifiuto di trattamenti anche necessari alla sopravvivenza e il mancato riconoscimento del diritto a morire, la Consulta ha tracciato una via di mezzo, definendo contenuti e contorni della libertà del malato di autodeterminarsi «nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze».
Cruciali sono l’accertamento delle condizioni sostanziali e la garanzia che la scelta sia libera e consapevole. Per questo, la Corte ha subordinato la non punibilità dell’assistenza a morire al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato e sulle terapie del dolore e alla verifica delle condizioni e modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del servizio sanitario, previo parere del comitato etico.
I due momenti sono strettamente connessi. La possibilità di autodeterminarsi è condizionata dal contesto. In un duplice senso: ogni libertà – ricordava Michele Costantino, compianto maestro di diritto della scuola barese – si definisce necessariamente sul piano delle relazioni (in questo caso, affettive, familiari, sociali, quella di cura e fiducia con il medico); il suo esercizio, nella materia in esame, è poi influenzato dall’offerta organizzativa e prestazionale del sistema sanitario. La scelta di anticipare l’evento morte è davvero libera e consapevole se al paziente è assicurata un’adeguata assistenza nell’affrontare sofferenze e dolore. L’aiuto a morire non è una rinuncia o un esonero delle strutture sanitarie a offrire tutti i trattamenti terapeutici del dolore praticabili, come previsto dalla legge 219/2017 e dalla precedente n. 38 del 2010. Anche su questo è la Corte costituzionale ad avvertire che «il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire un pre-requisito della scelta» e a sottolineare, richiamando un parere del 2019 del Comitato nazionale per la bioetica, come «lo sviluppo e il consolidamento della cultura palliativa nel nostro Paese incontrano ancora molti ostacoli, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del Servizio sanitario nazionale e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie». In altri termini, la scelta della morte non è esercizio di libertà ove è proprio la mancanza di assistenza a rendere intollerabile la condizione di sofferenza.
È su questo terreno che si muove la proposta di legge Amati. La proposta non si inserisce in un vuoto giuridico. Sgombra il campo da incertezze e mobilita le strutture sanitarie regionali verso il puntuale rispetto di obblighi già sanciti da leggi e della libertà di autodeterminazione del malato.In fondo, non c’è modo migliore di occuparsi di libertà e diritti se non declinando obblighi e doveri e facendo i conti con quella che Paolo Grossi, presidente emerito della Corte costituzionale, chiama la «carnalità del diritto». Per quanto possa elevarsi in alto, a scienza e pensiero, tra principi universali e concetti astratti, il diritto non sarà mai una nuvola galleggiante. Bisogna osservarlo dal basso verso l’alto, facendo emergere quanto è indispensabile per rendere compiute le disposizioni, effettivi i principi.