Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Ottaviano, Mingus e il filo della bellezza perduta
La copertina allude alla leggenda delle 56 balene spiaggiate sulle coste del Messico il giorno della sua morte (a 56 anni, a Cuernavaca), disegnando la sagoma di alcuni cetacei che fluttuano neri sulla grande campitura blu che fa da sfondo, mentre in basso un uomo grande e grosso con un cappello in testa tiene affianco a sé un contrabbasso. Anche questa un’immagine tutta nera, che si staglia sul fondo blu. Entrambi gli elementi rimandano a Charles Mingus (1922-1979), uno dei più grandi musicisti e compositori della storia del jazz, a cui è dedicato Charlie’s Blue Skylight, nuovo album del sassofonista barese Roberto Ottaviano realizzato in duo con il pianista inglese Alexander Hawkins, suo assiduo e prezioso collaboratore, e pubblicato come al solito dall’etichetta salentina Dodicilune. Un autentico gioiello, perché la musica di Mingus è talmente ricca e affascinante da sedurre in qualsiasi maniera venga proposta, e perché il modo in cui Ottaviano e Hawkins la approcciano è assai originale. Mingus, personalità disturbata capace di passare repentinamente dalla dolcezza alla violenza, uomo e artista arrabbiato perché aveva passato tutta la vita a fare i conti con la stupidità e l’intolleranza altrui, lui troppo chiaro per i neri e troppo scuro per i bianchi, metteva nella musica un tale carico di passioni da stordire: la furia ritmica del gospel e lo spirito del blues, la struggente eleganza delle melodie di Duke Ellington, i fraseggi astratti del bebop e della musica colta europea e la furia espressionista del free jazz. Come ci si accosta a un tale «pieno» di senso e di bellezza? Ottaviano e Hawkins hanno scelto di far decantare i furori e di proporre il loro Mingus, riletto attraverso le rispettive sensibilità; le sue note ci sono tutte, ma ci arrivano filtrate dal tempo e dalla distanza, come memorie riaffioranti dal passato. Già suonarle solo con due strumenti, sax soprano e pianoforte (alternato al rhodes in un paio di brani), ne riduce l’impatto da big band; la ricca polifonia delle voci diventa dialogo notturno e pacato. Per tacere dei brani affrontati in solo, come la sapida e gustosa Oh Lord, Don’t Let Them Drop That Atomic Bomb on Me, l’incubo dell’atomica così tipico degli anni Cinquanta e Sessanta e così drammaticamente attuale oggi, tradotto dal solo pianoforte in una trama blues sorniona e ammiccante; o la pura bellezza (nonostante il titolo duro e militante) di Free Cell, Block F Tis Nazi U.S.A. che Ottaviano svolge tutto solo in un fiume di note da cui farsi trasportare. Il duo? Funziona a occhi chiusi; basti ascoltare Remember Rockfeller at Attica o Self Portrait in Three Colors, con il sax luminoso e il sapiente controcanto ricco di ombre della tastiera. Il disco è in perfetta sintonia con le ultime esplorazioni di Ottaviano ricche di omaggi, riletture e riproposizioni provocatoriamente «inattuali»: da Braxton a Lacy, da Coltrane all’Africa, dal progressive anni Settanta a questo Mingus, appunto. Cercando con ostinazione il filo di una bellezza perduta.