Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Le «Parole nomadi» di Agnese Purgatorio alla Pinacoteca
S’inaugura domani alla Pinacoteca Giaquinto la personale dell’autrice barese che riassume il suo percorso oltre la fotografia
Agnese Purgatorio è un’artista concentrata su quella particolare tipologia sociale sbrigativamente etichettata come l’Altro, che invece nella sua produzione si applica a un variegato e multietnico soggetto collettivo, connesso a marginalità e diritti. Con uno sguardo emotivamente aderente, imparando dal cuore, come suggeriva qualche anno fa il titolo di una sua mostra berlinese («Learning by the heart»), Purgatorio ha trasferito le esperienze e gli incontri con esuli, migranti, popoli erranti, donne discriminate, bambini, conflitti e guerre, in collage fotografici digitali, video e performance. Ventidue opere dell’artista barese sono, da domani, presentate nella mostra «Parole nomadi», promossa dalla Città metropolitana di Bari e ospitata nella Pinacoteca «Giaquinto» di Bari.
Un percorso espositivo che si fa strada tra le sale del museo con la forza e la grazia di un combinato disposto di immagini e parole, in una vicendevole dilatazione di significati che, inoltre, chiarisce da subito la collocazione di Purgatorio nell’alveo delle arti visuali piuttosto che della fotografia tout court. La fotografia è, di fatto, solo una delle tecniche in uso, unita ad approcci multilinguistici, sorretti e potenziati anche da studi accademici sulla lingua e la letteratura brasiliana e lusitana. In ultima analisi, una fotografia che non riproduce semplicemente la realtà ma la chiosa, la interpreta, la problematizza, amplificando, con la manipolazione digitale, il suo carico di drammi e sofferenze.
Si comincia con la perentoria levità di una frase proustiana (Les intermittences du coeur) adagiata su una linea d’orizzonte che è anche il confine rovente tra Giordania e Israele, nelle plumbee tonalità di un Mar Morto evanescente. Accanto a un drappello di migranti, comuni ai tanti approdati anche sulle coste nostrane, tra i quali compaiono volti noti, per esempio Pasolini, insieme a intellettuali e artisti altrettanto riconoscibili, nomadi in un sistema che li ignora.
Fotomontaggi sviluppati, in passato, nel celebre ciclo «Fronte dell’Est» in cui tanti personaggi familiari, da Anna Magnani a Francis Bacon, militavano nei barconi gravidi di anime. I popoli in fuga restano temi elitari per l’artista, consegnati a oniriche marce sull’acqua o su zattere in forma di cartina geografica, su traiettorie prive di ostacoli ma lanciate verso approdi invisibili. Folle in primo piano o ridotte a fondali che spuntano nei perturbanti panorami di stanze squallidamente disadorne. Oppure, comunità riassunte nel penetrante ritratto di un singolo esule in composizioni dove il volto è contrapposto a spettrali relitti.
Del resto, il nomadismo è una pratica di vita e di ricerca per l’artista, sottolinea Carmelo Cipriani nel testo in catalogo, richiamata anche nella sua biografia. Qui Purgatorio dichiara, infatti, di vivere tra Beirut e Belgrado, città simbolo di conflitti etnici e religiosi dove però non ha mai messo piede, e tuttavia restano domicili concettuali per rimarcare un’erranza condivisa nella mente e nel cuore.
Centrali, nel suo universo geopolitico, sono le identità calpestate, le specificità culturali ed etniche imbastite in liriche trame compositive, in cui i Curdi sono immersi in un eden risarcitorio («The side of paradise» 2017-2020); gli Armeni riemergono come spettri in un teatro pugliese abbandonato (dove nel 1910 era stato proiettato un film documentario sulle relazioni fra Italia e Turchia). Sono silhouette mischiate alle rovine di una platea dismessa, di un palcoscenico vinto dall’oblio, memento di una tragedia storica esclusa dall’agenda della politica internazionale. Alle donne afgane destina una particolare tonalità, il blu kabul, come i colori dei burqa che volteggiano in uno spazio privo di gravità e ostentano una leggerezza che non corrisponde alla pesantezza discriminante e oppressiva della loro funzione.
Negli ultimi lavori, la parola si riappropria di un valore assertivo, vedi «Ossimoro», dove la scritta «I know», riportata su un paesaggio cancellato dalla nebbia, rende inconsistente ogni forma di consapevolezza di fronte all’impossibilità di vedere. O si àncora ad un messaggio politico con «Il vento porta via il velo», una tautologica scritta al neon con le parole del regista iraniano Abbas Kiarostami.
A oggi, è ancora una lontana chimera, solo una solida speranza per le donne iraniane in lotta, oppresse dal fondamentalismo.