Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
Il capitale
Ma facciamo un passo indietro. In una intervista del 2019 Umberto Santino, storico delle mafie e cofondatore a Cinisi del centro studi dedicato a Peppino Impastato, offre un’interessante definizione di mafia: «È la forma più emblematica della funzionalità della violenza (soprattutto quando è in larga parte impunita, com’è stato per un ampio lasso di tempo) ai processi di accumulazione e di acquisizione di ruolo e di potere, all’interno del contesto in cui agisce». Assumendo la complessità funzionalista della definizione precedente, possiamo indicare nella mafiosità pugliese quel sistema di comportamenti, atteggiamenti e orientamenti improntato a rendere strumentale al potere l’uso locale della violenza (compresa quella psicologica). Strumentale al potere economico e a quello politico.
La mafiosità è il fondamento di gruppo per l’accumulazione di un capitale sociale al servizio del conseguimento e del consolidamento del potere. Per questo non c’è da stupirsi se il network sociale mafioso pugliese contiene politici contigui, apparati amministrativi moralmente deboli ed imprenditori interessati. Questo perché la mafiosità non è un dato antropologico innato, né appartiene alle sole mafie: è un tratto, un carattere edificato e condiviso da tutti coloro che si riconoscono nell’acquisizione di potere attraverso l’uso della minaccia nelle sue diverse forme.
Queste considerazioni ci inducono a sospettare che a coprire le latitanze possano essere anche soggetti esterni ai clan ma interni alle reti che si riconoscono per identità di interessi nella mafiosità. Tutto ciò soprattutto nelle piccole comunità, dove il confine tra apparati criminali e altri apparati è tanto più sottile quanto più è forte il non detto, il taciuto. Aree, come il triangolo compreso tra il Brindisino, l’alto Leccese e il Tarantino, che sono state teatro di lupare bianche e omicidi ancora irrisolti. Aree dove non sempre è cristallino il rapporto tra demos e kratos.