Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
VIETATO VIETARE UNA LEZIONE DI DEMOCRAZIA DA FARE A SCUOLA
Le parole libere e le parole in libertà. Le prime, sancite dalla Costituzione italiana, dopo secoli di lotte da parte di uomini e donne, finiti sotto il cruento massacro anche di eserciti e polizia, per utilizzarle liberamente. Poi esistono le parole in libertà, quelle che ormai utilizziamo tutti, fomentate anche dall’uso smodato e anonimo dei social. Di questo ho parlato con circa trecento studenti baresi, fra liceali, scuole professionali e istituti tecnici, in occasione di un incontro organizzato durante un’assemblea di istituto. Avrebbero voluto che spiegassi loro ciò che accade a Bari, a proposito della corruzione e della politica, di quello che sta avvenendo, in occasione delle elezioni del prossimo loro sindaco. E volutamente abbiamo cominciato a parlare del tempo concesso loro, per utilizzare, valorizzare e indirizzare le parole. Per esempio, durante le assemblee di istituto, che non possono ridursi soltanto ai tornei sportivi che continuamente tolgono spazio alle parole libere e pensate degli stessi studenti. Allo stesso modo, di quel momento importante che è l’assemblea di classe: ore concesse dai docenti perché non si resti a fare nulla o al massimo ad anticiparsi i compiti che non si svolgerebbero a casa. È tempo prezioso, utile, in cui l’utilizzo delle parole serve a reclamare il disordine che c’è. «L’ordine che manca», come ha sostenuto Mario, quinto anno, e la sua compagna, poi: «sì, è necessario che qualcuno dia gli ordini, perché siamo in un momento in cui qua sta succedendo il casino: nelle strade, nelle università, a scuola non abbiamo capito cosa si può o non si può dire, se possiamo liberamente dire. Si respira un’aria di polizia da paura». E soprattutto gli studenti del triennio, a differenza dei più piccoli, ammettono di accorgersi che «si utilizzano anche le parole per confonderci: provi a pensare quello che sta accadendo con le norme punitive a scuola: è più di un anno che Valditara non parla d’altro che di punizioni, di condotta, di lavori socialmente utili. E ce jé, la caserm!?», ha detto Mariangela. «Non abbiamo capito una cosa – ha chiesto Annalisa – ma all’Università si è più liberi che a scuola superiore? Lì stanno arrestando le persone che boicottano la guerra». E quindi, ho dovuto spiegare la vera differenza fra le parole libere, che sono quelle pensate, di cui deve avere cura la scuola. Fargliele conoscere e insegnarle a usare. Non si può essere pro-Palestina o anti-Israele, senza sapere quello che sta succedendo da decenni fra quei popoli. Perché è così che continuano a nascere e a moltiplicarsi quelli che dicono che il fascismo ha fatto anche cose buone o che scrivono un mondo al contrario, pensando che l’omosessualità sia una malattia. «E Canfora, allora? – chiede Rosa – Anche lui non sa usare le parole libere? Com’è che è stato punito dalla Meloni?». E ho dovuto spiegare anche che un imprescindibile compito della scuola è quello di comprendere e saper utilizzare la libertà, sia che si parli, sia che si pensi, sia quando la si pensa diversamente dalla Meloni. Perché solo così, anche i prossimi diciottenni non siano disorientati in quelle quattro assi di legno dove votano. Hanno la stessa valenza di altri assi legnosi: la vita o la morte. Il divieto o la libertà.