Rodrik: guidare la globalizzazione
Lavoro, migrazioni da misurare. «La Cina apre finestre, ma con la zanzariera»
TRENTO «Preferireste essere poveri in un Paese ricco, o ricchi in un Paese povero?» Per far toccare con mano il tema dell’«uguaglianza globale» confrontato con le «disuguaglianze nazionali», l’economista Dani Rodrik ieri ha posto questo quesito al pubblico che ha scelto di ascoltarlo nelle tre stanze allestite a Palazzo Geremia. Una domanda a cui è difficile rispondere, ma che approda al concetto di una globalizzazione che deve essere governata, senza rifiutarla con approcci populisti o accettarla del tutto acriticamente.
L’intervento del docente — autore di La globalizzazione intelligente (Laterza 2015) — introdotto dal giornalista del Corriere della sera Massimo Gaggi, muove dalla formulazione del «paradosso degli Stati nazione, che sono la prima causa della disuguaglianza globale e al tempo stesso la fonte della prosperità economica interna». E quindi si torna alla domanda: meglio povero in un Paese ricco o ricchi in uno povero? «La risposta giusta è che non è possibile fare un confronto, giacché in un contesto di diseguale distribuzione del reddito, ciò che conta sono le differenze tra paese e paese più che le differenze interne. E sono differenze che dalla rivoluzione industriale in poi sono cresciute fino a diventare enormi, fino a disegnare un mondo diviso tra zone ricche e povere. La forza motrice che determina le disuguaglianze globali — continua Rodrik — è basata sulle differenze tra le diverse regioni del mondo. Si tratta però di una disuguaglianza che i tassi di crescita stanno riducendo. La Cina, ad esempio, ha portato centinaia di milioni di persone verso il ceto medio, e questo grazie alla globalizzazione che ha consentito un enorme aumento delle esportazioni».
La globalizzazione non ha però inciso solo sulla mobilità delle merci ma anche, attraverso una mitigazione delle barriere, su quella delle persone. Teoricamente, argomenta Rodrik, è possibile che i lavoratori che si spostano da un paese all’altro trovino condizioni migliori e possano godere degli stessi standard dei lavoratori locali, ma il punto è che dobbiamo definire «quanti» lavoratori possiamo far entrare senza rischiare di ridurre la coerenza interna di un Paese, sapendo comunque non è possibile definire un livello ottimale. «Per avere uno Stato nazione efficace dobbiamo dunque porre dei limiti?» si chiede Rodrik. «Abbiamo bisogno di un minimo comun denominatore, un’eccessiva eterogeneità è negativa per il mantenimento della fiducia sociale, che richiede una rete di sicurezza condivisa». L’esempio portato da Rodrik è ancora una volta la Cina «che ha cavalcato la globalizzazione senza aver fatto cadere tutte le barriere, ha aperto la finestra mettendo la “zanzariera”, una globalizzazione gestita dunque: il miglior esempio che ci fa capire come esistono argomenti a favore di una maggiore mobilità del lavoro, ma anche altri a favore di limiti alla mobilità, ed è proprio qui che va cercato il compromesso». Ma attenzione: «La Cina è un esempio, non un modello da seguire». Infine, l’ultimo avvertimento: «Se miniamo la fiducia nella globalizzazione, impediremo una gestione oculata della stessa».