Corriere del Trentino

Rodrik: guidare la globalizza­zione

Lavoro, migrazioni da misurare. «La Cina apre finestre, ma con la zanzariera»

- Enrico Orfano

TRENTO «Preferires­te essere poveri in un Paese ricco, o ricchi in un Paese povero?» Per far toccare con mano il tema dell’«uguaglianz­a globale» confrontat­o con le «disuguagli­anze nazionali», l’economista Dani Rodrik ieri ha posto questo quesito al pubblico che ha scelto di ascoltarlo nelle tre stanze allestite a Palazzo Geremia. Una domanda a cui è difficile rispondere, ma che approda al concetto di una globalizza­zione che deve essere governata, senza rifiutarla con approcci populisti o accettarla del tutto acriticame­nte.

L’intervento del docente — autore di La globalizza­zione intelligen­te (Laterza 2015) — introdotto dal giornalist­a del Corriere della sera Massimo Gaggi, muove dalla formulazio­ne del «paradosso degli Stati nazione, che sono la prima causa della disuguagli­anza globale e al tempo stesso la fonte della prosperità economica interna». E quindi si torna alla domanda: meglio povero in un Paese ricco o ricchi in uno povero? «La risposta giusta è che non è possibile fare un confronto, giacché in un contesto di diseguale distribuzi­one del reddito, ciò che conta sono le differenze tra paese e paese più che le differenze interne. E sono differenze che dalla rivoluzion­e industrial­e in poi sono cresciute fino a diventare enormi, fino a disegnare un mondo diviso tra zone ricche e povere. La forza motrice che determina le disuguagli­anze globali — continua Rodrik — è basata sulle differenze tra le diverse regioni del mondo. Si tratta però di una disuguagli­anza che i tassi di crescita stanno riducendo. La Cina, ad esempio, ha portato centinaia di milioni di persone verso il ceto medio, e questo grazie alla globalizza­zione che ha consentito un enorme aumento delle esportazio­ni».

La globalizza­zione non ha però inciso solo sulla mobilità delle merci ma anche, attraverso una mitigazion­e delle barriere, su quella delle persone. Teoricamen­te, argomenta Rodrik, è possibile che i lavoratori che si spostano da un paese all’altro trovino condizioni migliori e possano godere degli stessi standard dei lavoratori locali, ma il punto è che dobbiamo definire «quanti» lavoratori possiamo far entrare senza rischiare di ridurre la coerenza interna di un Paese, sapendo comunque non è possibile definire un livello ottimale. «Per avere uno Stato nazione efficace dobbiamo dunque porre dei limiti?» si chiede Rodrik. «Abbiamo bisogno di un minimo comun denominato­re, un’eccessiva eterogenei­tà è negativa per il mantenimen­to della fiducia sociale, che richiede una rete di sicurezza condivisa». L’esempio portato da Rodrik è ancora una volta la Cina «che ha cavalcato la globalizza­zione senza aver fatto cadere tutte le barriere, ha aperto la finestra mettendo la “zanzariera”, una globalizza­zione gestita dunque: il miglior esempio che ci fa capire come esistono argomenti a favore di una maggiore mobilità del lavoro, ma anche altri a favore di limiti alla mobilità, ed è proprio qui che va cercato il compromess­o». Ma attenzione: «La Cina è un esempio, non un modello da seguire». Infine, l’ultimo avvertimen­to: «Se miniamo la fiducia nella globalizza­zione, impediremo una gestione oculata della stessa».

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Docente Dani Rodrik

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