La Cassazione «Grisenti seguì interessi privati»
La Cassazione: «Perseguito un interesse privato». Ecco le motivazioni della sentenza
Una sentenza sintetica, ma netta. «Grisenti non agì per interesse pubblico, ma privato». È quanto scrivono i giudici della Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza con la quale nel marzo scorso hanno confermato la condanna a un anno per truffa, corruzione e violenza privata, dell’ex presidente di A22 Silvano Grisenti. Nelle sei pagine di sentenza i giudici della Corte Suprema hanno ripercorso i punti centrali dell’inchiesta ritenendo fondate le accuse mosse al politico trentino. Secondo i magistrati, che hanno rigettato il ricorso presentato dagli avvocati della difesa Vanni Ceola e Alessandro Melchionda, Grisenti aveva stretto accordi con Collini per favorire «imprese amiche» e il fratello Giuseppe. Amareggiata la difesa, i legali valutano il ricorso alla Corte di Strasburgo.
TRENTO Sei pagine e mezzo. Una sentenza tanto stringata quanto netta, che traccia i contorni di quello che è stato definito il «metodo Grisenti».
I giudici della Corte di Cassazione non sembrano avere dubbi, nonostante l’intervento del procuratore generale che aveva in parte sposato le conclusioni dei due difensori, gli avvocati Alessandro Melchionda e Vanni Ceola, soprattutto per quanto riguarda il reato di corruzione, per il quale aveva chiesto l’annullamento della condanna della Corte d’appello di Bolzano. I giudici romani hanno condiviso in pieno l’impianto accusatorio della Procura di Trento e le memorie depositate in appello dal pm Pasquale Profiti, che aveva condotto le indagini. Silvano Grisenti, l’ex super assessore della Provincia di Trento, ex presidente di A22, è colpevole e ha agito «esclusivamente per il proprio interesse privato di mantenere l’impegno assunto, quando gli era stata conferita la presidenza di A22, di favorire le imprese “amiche” e di estromettere o ostacolare le altre».
È quanto scrivono i giudici della Corte di Suprema nelle motivazioni della sentenza del marzo scorso con la quale è stata confermata la condanna dell’ex super assessore a un anno per truffa, corruzione e violenza privata. In poco più di sei pagine i magistrati romani ripercorrono in modo sintetico le principali accuse mosse al politico trentino rigettando in toto le doglianze della difesa, che aveva presentato un lungo e corposo ricorso contro la condanna della Corte bolzanina, evidenziando anche la carenza di motivazione in merito all’accusa di corruzione propria. La contestazione riguarda l’appalto del casello autostradale di San Michele, già aggiudicato alla Collini spa, nella parte concernente l’adozione della normativa sul risparmio energetico. Secondo l’accusa Grisenti avrebbe agevolato Collini con la promessa di conferire incarichi di progettazione alla società del fratello. Accusa infondata per gli avvocati che avevano puntato anche sull’insufficienza di motivazione in riferimento al nesso di causalità tra le promesse e i presunti vantaggi. Secondo i giudici le intercettazioni ambientali sarebbero invece «illuminanti perché contengono un’esplicita richiesta dell’imputato nei confronti dell’imprenditore di incaricare la società di ingegneria di cui era titolare il fratello Giuseppe». I giudici parlano di una «precisa intesa» tra Grisenti e Collini.
E l’ex super assessore non avrebbe neppure disdegnato, ad avviso dei magistrati, lo strumento della minaccia per ottenere quello che voleva. La Corte Suprema nella sentenza si sofferma anche sull’altro punto centrale della vicenda giudiziaria, che ha messo nei guai il politico trentino, relativa all’accusa di tentata violenza privata. Secondo gli avvocati non c’è stata minaccia e quindi non c’era il reato. Per i giudici, invefamose ce, le «cosiddette minacce di guerra» di Grisenti nei confronti di imprese «non amiche» e in particolare di Giorgio Benedetti, dipendente del Ccc (Consorzio cooperativo costruzioni) per l’affare della Cispadana, il collegamento autostradale in cui A22 compariva quale capofila di un consorzio imprese trentine, venete ed emiliane, devono essere «senz’altro considerate come minaccia». «Grisenti non perseguiva alcun interesse pubblico — si legge in sentenza — bensì esclusivamente il proprio interesse privato».
L’ultimo punto riguarda le cene «di partito» al ristorante «La Campanella» (tre gli episodi contestati) pagate con i soldi dell’Autobrennero per le quali la difesa ha battagliato a lungo appellandosi all’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sull’utilizzabilità delle intercettazione telefoniche. Aspetto, questo, esanimato a lungo dal primo giudice, il gup Carlo Ancona, che le aveva ritenute inutilizzabili, assolvendo l’ex assessore dall’accusa di truffa aggravata. Reato confermato invece in appello a Trento, poi in Cassazione e infine anche dalla Corte di Bolzano.
Nel ricorso i difensori hanno sollevato un difetto di motivazione da parte dei giudici bolzanini in merito alla questione di legittimità costituzionale, ma il collegio romano, presieduto dal giudice Antonio Esposito, ha rigettato le controdeduzioni della difesa. Una sentenza pesante, più in fatto che in diritto, che suggella la fine della lunga e spinosa vicenda giudiziaria e della carriera politica dell’ex super assessore. L’utima spiaggia potrebbe essere un ricorso straordinario in Cassazione per carenza di motivazione o un ricorso in extremis alla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo, ma la strada è tutta in salita. Gli avvocati sono amareggiati. «Valuteremo il ricorso, nella sentenza ci sono degli errori sostanziali» chiariscono. «Deciderà il cliente».