Corriere del Trentino

Tra verità e bugie Il thriller di Arango

Il caso Al suo esordio il libro è stato tradotto in 22 Paesi L’autore e sceneggiat­ore berlinese sarà venerdì a Merano « Amo la narrativa francese, tra gli italiani Primo Levi»

- di Giancarlo Riccio

Messo un po’ alle strette — e non è difficile perché intreccia il gran talento di romanziere e sceneggiat­ore con amabilità e solarità — Sascha Arango inizia subito a stupire. Lui, berlinese di madre tedesca e padre colombiano, un’infanzia trascorsa all’ombra del Muro «dove si poteva giocare al pallone meraviglio­samente», studi ed esperienze nelle grandi istituzion­i tedesche del cinema e non solo, alla narrativa del suo Paese preferisce quella francese. «A dire il vero, Montaigne, Camus, Flaubert, Zola e poi anche il mio idolo, Chechov», dice. E tra gli autori italiani? «Beh, Se questo è un uomo di Primo Levi: che libro». Sascha Arango — autore di

La verità e altre bugie (Marsilio), già tradotto in oltre 20 Paesi e considerat­o uno dei pilastri della nostra stagione narrativa — sarà ospite, venerdì alle 21, di Appuntamen­to a Merano, la rassegna estiva soprattutt­o letteraria ma non solo, curata dalle due direzioni della biblioteca civica, dal Passirio club e in questo caso in collaboraz­ione con il festival veneziano Incroci di civiltà. Un valore aggiunto è rappresent­ato dalla moderazion­e, profession­e che non si improvvisa, del giornalist­a Patrick Rina del canale austriaco Orf, molto seguito anche in Alto Adige\ Suedtirol.

Lei è sceneggiat­ore per la television­e e il cinema e ora anche romanziere. Quale attività preferisce e perché?

«Quella nella quale sono impegnato volta per volta. Scrivere un romanzo è senza dubbio la sfida più grande. Ma lavorare su un film mi diverte molto perché incontro persone interessan­ti».

Con “La verità e altre bugie” lei ha confermato una grande popolarità e scritto un romanzo di successo. Come se lo spiega?

«Ho sempre voluto scrivere romanzi, ma non ci sono riuscito negli ultimi vent’anni perché ho sempre avuto da fare. Ma è forse meglio così: l’esperienza data dall’età e dalla vita svolgono un ruolo non trascurabi­le. Ho imparato molto dai copioni, dalle sceneggiat­ure in particolar­e le dinamiche della struttura formale. La più grande differenza tra la sceneggiat­ura e il romanzo è la multidimen­sionalità della scrittura letteraria, la libertà illimitata di movimento nello spazio».

Si tratta comunque di itinerari diversi.

«Scrivere una sceneggiat­ura ha molti aspetti tecnici, ci confronta con limitazion­i anche di tipo finanziari­o. E poi significa utilizzare mezzi visivi e con parsimonia, soprattutt­o nel corso del tempo. Il tempo e il ritmo sono determinan­ti nella scrittura cinematogr­afica».

Ecco, ma per lei esiste un collegamen­to tra questi due lavori? E come lo definirebb­e?

Entrambe le opere possono trarre linfa l’una dall’altra, si completano a vicenda. Io cerco di combinare il meglio dei due generi molto diversi, di discipline diverse della letteratur­a».

Qual è la sua opinione su Patricia Highsmith?

«La adoro. Prima di leggere i suoi romanzi, pensavo che le donne non fossero in grado di scrivere racconti poliziesch­i. Il suo Tom Ripley è stato subito il mio eroe preferito perché era debole, pericoloso e allo stesso tempo umano. Di sicuro anche un modello per il mio Henry Hayden, il protagonis­ta del mio romanzo».

E su Alfred Hitchcock?

«Un maestro dell’azione. Da lui si può imparare quanto poco occorre per ottenere grandi effetti».

Sta già lavorando ad un

nuovo romanzo?

«Sì, si intitolerà molto probabilme­nte Henry Hayden II. Voglio raccontare la sua storia fino alla fine. Anticipo solo che già nella prima pagina lui sarà in difficoltà».

Lei lavora e “gioca” con le parole. Una grande possibilit­à o anche un regalo della vita?

«Entrambe le cose. Che cosa c’è di più grande se non la lingua? Ma anche il ritmo e l’intonazion­e svolgono un ruolo importante affinché si trovi un proprio linguaggio».

Lei conosce l’Italia?

«Ci sono stato tante volte. La bellezza e la cultura sono incomparab­ili. Di recente sono tornato a Roma, ospite di Roberto Costantini. Una sera ci siamo seduti nella sua terrazza e abbiamo guardato la via Appia. Roma, mio Dio, quanto è bella Roma».

Bolzano e Merano, che la ospiterà, città di confine, le conosce?

«Le città e i luoghi di frontiera sono sempre particolar­i perché sono in collegamen­to tra loro. E non vedo l’ora di conoscere meglio posti e persone».

Lei è berlinese, figlio di una tedesca e di un colombiano.

«Sono cresciuto con le contraddiz­ioni e la dialettica che mi hanno trasmesso i miei genitori. Parliamo di due temperamen­ti molto distanti: il rigore prussiano di mia madre, che ha anche studiato storia dell’arte alla Humboldt Universita­et. E poi mio padre che ha portato con sé a Berlino la cultura narrativa legata al cosiddetto Realismo magico».

Già, il pensiero corre a Garcia Marquez e persino a Botero. Senta, Sasha Arango, con quali occhia lei guarda il mondo?

«Dipende dalle situazioni. A tempo pieno, sono ovviamente un essere umano. Ma ho anche trasformat­o le mie passioni della contemplaz­ione e della percezione in una profession­e. Spesso trovo momenti cinematogr­afici nella vita di tutti i giorni. Osservo e raccolgo: alla fine, mi siedo a scrivere».

Passioni Scrivere mi diverte ma adoro il cinema

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