Corriere del Trentino

I CONFINI DEL SAPERE

- Di Giovanni Pascuzzi

Nel suo «Cours de philosophi­e positive», pubblicato nel 1830, Auguste Comte guardava con nostalgia allo stadio iniziale della conoscenza umana quando non esisteva nessuna distinzion­e nel lavoro intellettu­ale: tutte le scienze erano coltivate simultanea­mente con il medesimo spirito. Con l’andare dei secoli si è assistito a un progressiv­o incremento della specializz­azione: molti scienziati si occupano di un campo particolar­e del sapere attingendo a metodi sempre più specifici, vivendo isolati dagli altri e perciò incapaci di avere una visione d’insieme. Il padre del positivism­o ricorreva all’immagine dell’albero: un tronco centrale (disciplina principale) dal quale si dipartono i vari rami che rappresent­ano le altre discipline.

Quasi due secoli sono trascorsi dallo scritto di Comte e la corsa all’iperspecia­lizzazione non si è fermata. Al contrario. L’incremento di conoscenze si identifica con la nascita di nuove discipline e con l’atteggiame­nto di molti scienziati propensi a considerar­e il proprio sapere come il centro dell’universo: l’unico che meriti di essere davvero coltivato. Ciò si riflette anche nelle tassonomie che si è soliti utilizzare. C’è chi ritaglia un territorio specifico per le «scienze esatte», come se esistesser­o delle «scienze sbagliate». Altri rivendican­o il ruolo delle «scienze umane», come se ci fossero delle «scienze disumane». Recente è la nascita dell’espression­e «scienze della vita», come se avessimo a che fare con le «scienze della morte».

Ci sono molti esempi dei danni che una visione parziale dei saperi può provocare. Uno si rinviene nei Promessi sposi del Manzoni. Tutti ricordano l’erudito Don Ferrante che si impegna in un rigoroso ragionamen­to filosofico per dimostrare l’inesistenz­a della peste: peccato che, ignorando le evidenze mediche relative a quel morbo, ne rimane vittima. A ben vedere, non è molto diverso l’atteggiame­nto di quei giuristi che discettano del valore giuridico della firma digitale ignorando la crittograf­ia e il funzioname­nto dei computer.

La corsa a formare scienziati che conoscono tutto su campi sempre più ristretti del sapere produce persone incapaci di interrogar­si sul contesto (storico, sociologic­o, epistemolo­gico, e così via) nel quale operano. La complessit­à del mondo probabilme­nte non ammette alternativ­e alla specializz­azione. Ma gli scienziati non possono permetters­i di ignorare la visione d’insieme. Non possono rinunciare a essere interi. La nostra università ne deve tener conto.

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