I CONFINI DEL SAPERE
Nel suo «Cours de philosophie positive», pubblicato nel 1830, Auguste Comte guardava con nostalgia allo stadio iniziale della conoscenza umana quando non esisteva nessuna distinzione nel lavoro intellettuale: tutte le scienze erano coltivate simultaneamente con il medesimo spirito. Con l’andare dei secoli si è assistito a un progressivo incremento della specializzazione: molti scienziati si occupano di un campo particolare del sapere attingendo a metodi sempre più specifici, vivendo isolati dagli altri e perciò incapaci di avere una visione d’insieme. Il padre del positivismo ricorreva all’immagine dell’albero: un tronco centrale (disciplina principale) dal quale si dipartono i vari rami che rappresentano le altre discipline.
Quasi due secoli sono trascorsi dallo scritto di Comte e la corsa all’iperspecializzazione non si è fermata. Al contrario. L’incremento di conoscenze si identifica con la nascita di nuove discipline e con l’atteggiamento di molti scienziati propensi a considerare il proprio sapere come il centro dell’universo: l’unico che meriti di essere davvero coltivato. Ciò si riflette anche nelle tassonomie che si è soliti utilizzare. C’è chi ritaglia un territorio specifico per le «scienze esatte», come se esistessero delle «scienze sbagliate». Altri rivendicano il ruolo delle «scienze umane», come se ci fossero delle «scienze disumane». Recente è la nascita dell’espressione «scienze della vita», come se avessimo a che fare con le «scienze della morte».
Ci sono molti esempi dei danni che una visione parziale dei saperi può provocare. Uno si rinviene nei Promessi sposi del Manzoni. Tutti ricordano l’erudito Don Ferrante che si impegna in un rigoroso ragionamento filosofico per dimostrare l’inesistenza della peste: peccato che, ignorando le evidenze mediche relative a quel morbo, ne rimane vittima. A ben vedere, non è molto diverso l’atteggiamento di quei giuristi che discettano del valore giuridico della firma digitale ignorando la crittografia e il funzionamento dei computer.
La corsa a formare scienziati che conoscono tutto su campi sempre più ristretti del sapere produce persone incapaci di interrogarsi sul contesto (storico, sociologico, epistemologico, e così via) nel quale operano. La complessità del mondo probabilmente non ammette alternative alla specializzazione. Ma gli scienziati non possono permettersi di ignorare la visione d’insieme. Non possono rinunciare a essere interi. La nostra università ne deve tener conto.