«Albere, idea vecchia che non fa socialità»
L’antropologo La Cecla: «Recuperare i luoghi della vita comune. Nuove tecnologie penalizzanti»
TRENTO Comuni aperti, intelligenti, virtuali. Ma anche: occupati, milanesizzati, spinati. Franco La Cecla, antropologo culturale e architetto, profondo conoscitore dello spazio e dei suoi confini, dell’aggregazione sociale e delle sue limitarità, raggiunge Trento, lunedì alle 18, per un incontro tutto dedicato al «fare e capire le città». Un momento di riflessione, all’interno della rassegna «Materiali Resistenti» pensata dall’Impact Hub di via Sanseverino, per tracciare le fila dell’architettura moderna, a partire dal suo ultimo lavoro: «Contro l’urbanistica» (Einaudi, 2015).
Professore, a ospitarla sarà uno spazio di co-working. Come, secondo lei, queste realtà stanno modificando le identità urbane?
«Sono strutture molto interessanti, specie per il loro aspetto sociale. Lavorano come degli aggregatori, nati apparentemente per rispondere alla crisi, ma con un senso più profondo:
ritrovare la comunità, ridare senso allo spazio nel suo essere pubblico e dunque fruibile in contemporanea, rivalutando il bello della conoscenza».
Un aspetto che la virtualità ha messo in discussione?
«Esattamente. Le nuove tecnologie sono l’opposto degli spazi sociali, rendono le città irrilevanti, uniformate nelle loro connessioni e nella presenzaassenza dei suoi abitanti».
Torneremo mai indietro?
«La guerra per riprendersi lo spazio pubblico è costantemente in atto. Pensiamo a quanto è accaduto al Cairo, in piazza Tahrir, a Istanbul, con Gezi Park o a Honk Kong. Il potere chiude, la città avanza. Per abbatterlo, la gente deve occupare fisicamente un luogo, da invisibili bisogna diventare visibili».
E l’Italia come si pone di fronte a questi cambiamenti?
«Il nostro Paese è fortunato, le nostre città hanno resistito. Siamo un modello di arcaicità sincera, ma non possiamo abbassare
la guardia, altrimenti ci ritroviamo con quartieri in stile Le Albere».
In che senso?
«Non è nato nulla di buono da quell’idea, nessuna vita, nessun effetto moltiplicativo, solo il riverbero di una vecchia concezione secondo la quale è il monumento architettonico a fare la città. Ma non è così: ciò che serve è il recupero del luogo comune, dalla strada alla piazza. Pensiamo a quello che sta succedendo a Milano con la nuova Darsena, ad esempio: una struttura orribile in quanto a materiali utilizzati, ma diventata immediatamente
popolare, brulicante di volti, pensieri e nazionalità».
Milano è anche culla di Expo 2015: 145 Paesi in poco più di 3 chilometri. È socialità anche questa?
«Purtroppo no: Expo a mio avviso è poco più che una fiera di provincia, con baracconi ridicoli che hanno distrutto il pensiero principe di Slow Food. Nulla di ciò che vediamo tra Cardo e Decumano è espressione di cibo sano, di cibo giusto».
Un giudizio altrettanto severo lo esprime sulle Smart City: Trento è tra le prime dieci città più intelligenti al mondo. Cosa c’è di sbagliato in questo?
«Smart city, sustainable city: non sono altro che slogan privi di contenuto. Modelli secondo i quali le tecnologie creano la felicità. Per di più, la felicità urbana. Non è così: un robot non sarà mai sinonimo di vitalità sociale e non migliorerà la vita di nessuno».
Dunque, se la direzione delle città intelligenti è sbagliata, verso dove dovremmo andare?
«Piuttosto, dove dovremmo tornare! È questo il concetto: servono cose semplici come il marciapiede rifatto, l’illuminazione funzionante, il giardinetto curato. Si crea vita in una città se c’è possibilità di passeggiare serenamente, se non c’è paura, se il desiderio dell’incontro viene suggellato da uno spazio accogliente».
Elogio del piccolo, dunque? Trento può rientrare in questa descrizione?
«In parte. Sicuramente è una realtà interessante che potrebbe spingere molto più sulla valorizzazione della socialità. Il segreto, ricordiamolo, è stimolare la microvita, preferire le botteghe di quartiere alle grandi catene e incentivare la pedonalità piuttosto che l’invadenza delle automobili. Insomma, lasciamo che i corpi tornino ad abitare le nostre città».