QUEI MOSTRI INTERIORI
Non mancano certo di questi tempi i motivi per avere paura. Eppure, forse, ciò che ci spaventa di più non sono le cause politiche, economiche, interculturali, ma i nostri mostri e i nostri fantasmi interiori, che tiriamo fuori di fronte alle strettoie del mondo esterno.
Esprimiamo modi di elaborare la nostra fragilità che rispondono seguendo la via del farmaco come rimedio peggiore della malattia che dovrebbe curare. Uno dei passaggi più rilevanti della recente conferenza stampa della deputata di Forza Italia, Michaela Biancofiore è stato il seguente: «Immaginate la nostra regione, dove come minimo giungeranno 27.500 immigrati clandestini nella sola provincia di Bolzano e qui, come saprete, la maggioranza dell’immigrazione è costituita da ragazzi di età compresa fra i 18 e i 21 anni. È un problema che va sottolineato, perché dovete immaginare le nostre ragazze che sono belle, bionde ed eteree, ma anche religiose e cristianissime: avranno a che fare con un’invasione di questi maschi mossi, talvolta, dagli ormoni».
L’associazione tra immigrati clandestini, ragazze belle, bionde e cristianissime, e gli ormoni è una miscela molto efficace per soffiare sul fuoco della paura. Ricorrendo agli ormoni, una scoperta davvero originale (sic!), chi parla sa che sta naturalizzando il pericolo e lo sta attribuendo a interi gruppi di persone, ammucchiati nella categoria di clandestini. Una responsabilità gravissima perché basata su una pura invenzione, figlia, in questo caso, non della paura, ma di un uso della paura a scopi di consenso politico. Se i nostri mostri interiori, più o meno giustificati da fatti inventati, fuoriescono dalle pance senza il filtro della coscienza e della conoscenza, sappiamo già come andrà a finire. Tanto più che tutto ciò si cala in una situazione di profonda fragilità della tenuta soggettiva delle difficoltà del presente. Qualcosa del genere è accaduto nelle esternazioni, a Porta a Porta e sul web, da parte dei padri dei due giovani omicidi di Luca Varani, al quartiere Collatino a Roma. Un atteggiamento da analista distaccato che si limita a descrivere i fatti, basato sull’indifferenza, come se niente fosse, a meno di 48 ore dall’avvenimento, ed equiparando chi muore con chi uccide «per vedere cosa si prova ad uccidere». Abbiamo ragioni molteplici per sentirci vulnerabili e fragili, oggi. Ma non è con l’indifferenza e la naturalizzazione che si dovrebbe elaborare la fragilità. Porteremmo a casa solo sangue e terrore.