Risorgere nell’incomprensione
Attraversiamo un’epoca dove la vita è svalutata La strage di Bruxelles vuole generare terrore o spettacolo?
De Andrè «E scende il sole al di là delle dune» Dubbio Gli attentatori non sono martiri Tradizioni Un tempo la Pasqua era detta Pasqua dell’uovo. È il simbolo della rinascita
Venerdì Santo è il giorno in cui si celebra la memoria dell’UomoDio che muore martire per l’umanità. Ci sovrasta la tenebra e la stretta di un grande mistero, quello della croce.
Nel gran buio della ragione dove si accende la speranza dell’utopia, mi si presentano, continuamente, alcune immagini e non so distogliermene. Ci sono i versi di una canzone di De Andrè: «E scende il sole al di là delle dune, a violentare altre notti ...nella pietà che si affianca all’amore, io nel vedere quest’uomo che muore, madre io provo dolore». E ancora immagini di terrificanti crocifissioni che guardano in faccia una folla sterminata di persone, mai un Cristo di schiena, a nascondere la vergogna del morire. E lì, nelle rappresentazioni di questo terribile attimo, poche persone abbarbicate alla croce e, più in là, folle di spettatori uguali a quelle folle che si radunano davanti ad un grave incidente o davanti ai sanguinosi giochi del circo o ai roghi delle streghe o alla ghigliottina durante la Rivoluzione francese. O peggio, molto peggio, alle immagini delle stragi che solo pochi giorni fa hanno dilaniato Bruxelles o prima altre città, tutte con le stesse finalità: seminare il terrore o fare spettacolo? Lo spettacolo della morte affascina? Che cosa affascina, forse il concetto di sacrificio? Affascina anche noi che rimiriamo la morte del Cristo uomo-dio come sacrificio per l’umanità? Tanto che, nella Settimana Santa, amiamo «andar per sepolcri» per rinvigorire in noi memoria, compassione ed orrore di quel Supremo Sacrificio.
Mi sento profondamente blasfema, ma ho per il concetto di sacrificio una specie di fascino e di orrore allo stesso tempo. Certo parliamo del sacrificio di Gesù in croce: croce, legno, vela nutrimento, culla, rogo e bara, comunque segno nel quale noi cattolici ci riconosciamo.
Sacrificio e redenzione che culmina nella Pasqua di Resurrezione. Sacrificio e premio? Fu emulazione del Cristo, sacrificio per la fede, quello dei martiri e dei santi? Ma sul concetto di «martiri» non so più cosa pensare. Chi è un martire? Nei primi secoli del cristianesimo, il martire è il testimone eroico della fede cristiana, testimone fino al sacrificio di se stesso, quindi fino alla morte. Per estensione chi sopporta ogni pena e anche la morte per i propri ideali di vita; chi si sacrifica per un’attività in cui crede profondamente: i martiri della lotta di liberazione, un martire del lavoro, il martire per la famiglia. E poi, se vogliamo scherzare, ma non è proprio il caso, martire viene detto anche colui che assume atteggiamenti da vittima. Che ce ne facciamo di questi assassini che si dichiarano «martiri» di fedi e credi diversi, seminando morte e non solo la propria.
È questo il sacrificio e questi possono essere detti martiri? Rifiuto totalmente questa lettura anche perché antropologicamente porta lontano, se non altro alla scelta non del martire, ma della vittima sacrificale, fatta da altri come la fede cristiana sostiene, scelta di vita o di testimonianza del singolo. Basta con gli orrori. O sono anche queste scelte e testimonianze di singoli, ma allora perché? Che c’entri «muoia Sansone e tutti i Filistei»? Sono molto confusa. Non riesco a dimenticare le membra spezzate, il sangue, gli strazi appena vissuti. Distruzione, morte e non mi ci sta il sacrificio, quello che dovrebbe portare alla gloria o comunque alla redenzione. Ho nella mente e nell’orecchio non canti liturgici, ma grida di strazio di figli, di madri, di padri, di gente. Vedo ferite, bende, teli mortuari.
Venerdì Santo mi rimanda anche ai ritmi dei Portatori del Venerdì Santo a Siviglia, dove una «saeta», un canto a ritmo di flamenco, si innalza in onore di Maria e mima il suo dolore di madre fra le madri. Una saeta è letteralmente una freccia nel cuore dell’umanità per tener sveglia la memoria, per scuotere ed esigere un significato. Non so, sono considerazioni del tutto personali, ma più che il rito della croce mi affascinano le bende che avvolgono il corpo del Cristo morto e tolto dalla croce.
Penso ai nastri bianchi e purpurei che ornano l’eiresione, un ramo d’ulivo che la Domenica delle Palme i Greci portano e portavano (anche ai tempi di Omero, per riti diversi) di casa in casa, i nastri annodati ad un ramo o ad una statua, alle braccia, alla testa, ad una prua, ad un’ascia ad una pietra, a un tripode, avvolte per proteggere un bambino dalla vita o un morto dalla morte.
Che cosa annunciavano quelle bende e quei nastri? «Vittae dictae sunt, quod vinciant» le bende sono così chiamate perché vincolano. Ma quale vincolo? Una maglia invisibile che collega il mondo: bianche perché è il colore della divinità, rosse per- ché il sangue ci collega alla morte. Un fluttuare di cose, una che sfocia nell’altra, bende e nastri che ci vincolano, nostro malgrado. Bende che avvolgono e cullano la nostra volontà di fare, di agire, di muoversi. Tanto tutto è demandato ad altri in questa palude di qualunquismo e di indifferenza. Vale il proverbio che dice: «Quello che si ripete perde la forza di colpire?».
E poi, ci si consola. Dopo la morte la promessa della Resurrezione. Festa di Risurrezione, festa di Pasqua. Un tempo la Pasqua era detta Pasqua dell’uovo, perché si donavano uova e perché l’uovo è il simbolo della rinascita. «Omne vivum ex ovo» si diceva.
Nella cristianità ortodossa, ma anche nelle nostre valli ladine, sulle uova dipinte si scrivevano pensieri sacri. Dal russo Pysanky, dal verbo pysaty-scrivere in silenzio, dedicando alla memoria il pensiero della resurrezione forse il passo non è lungo. Ma l’uovo è anche simbolo del sepolcro dove riposa un principio di vita, come nelle tombe dei martiri cristiani.
Morte e resurrezione. Nel gran buio della notte del Venerdì Santo su un’isola in Grecia ancora si sente, proveniente dal mare il grido: «Tammuz, Tammuz, Tammuz il Panmegas è morto». Il Panmegas, l’universalmente grande, il sommo è morto-commenta il pope, ma risorgerà come risorge la primavera, nelle vesti del messia, l’unto del Signore. E si alza l’urlo della folla. Un urlo che passa nel cielo come una saetta, una memoria del dolore e una speranza della gioia. Finiranno questi tempi e si tornerà a comprendersi, a vivere tutti per la vita, il bene più grande?