«Banche perno dei paradisi fiscali»
L’ex ministro Visco analizza lo scandalo dei Panama Papers e del sistema offshore «Abbandonare il libero mercato e limitare il potere degli istituti di credito»
TRENTO Hanno giocato un ruolo decisivo nelle crisi finanziarie degli ultimi decenni, hanno provocato «la crescita della disuguaglianza, tutelato gli interessi dei ceti abbienti in tutti i Paesi del mondo a partire dai dittatori di quelli in via di sviluppo, offerto rifugio a criminalità e servizi segreti e a tutte le grandi banche mondiali». Eppure, i paradisi fiscali e il sistema offshore sono ormai «parte integrante del modello di sviluppo degli ultimi trent’anni, iperliberista e deregolamentato». E nonostante qualche passo avanti, non c’è via d’uscita: «Gli interessi in gioco sono talmente enormi — ammette Vincenzo Visco — che non esiste governo al mondo in grado di reggere alle pressioni delle lobby coinvolte».
L’ex ministro delle finanze e del tesoro e viceministro dell’economia, oggi presidente del centro studi Nens, ha alzato il velo sulla questione dei paradisi fiscali, riportata all’attualità dalla diffusione dei Panama Papers a opera di un consorzio internazionale di giornalismo investigativo: «Undici milioni e mezzo di documenti, relativi a 214.000 società, facenti capo a 360.000 persone in 200 Paesi diversi, tutti trafugati da un unico studio legale, il Mossack Fonseca». Pur non esistendo un’uniformità di definizione (e nemmeno certezza nelle stime dei capitali coinvolti, c’è chi dice 7.000 miliardi di dollari e chi dai 21.000 ai 32.000) le giurisdizioni che possono essere considerate paradisi fiscali sono fra le 60 e le 90 al mondo, garantiscono un livello basso o nullo di tassazione, la segretezza, la possibilità di eludere qualsivoglia regolamentazione fiscale e finanziaria ma anche di aggirare leggi in materia di riciclaggio, eredità, divorzio. Ci sono i paradisi fiscali europei, con la Svizzera in testa, «madre di tutti i paradisi fiscali del mondo», quelli collegati agli Stati Uniti, quelli che fanno capo al Regno Unito (e la Brexit «aggraverebbe la situazione — secondo Visco — con ripercussioni serie che non siamo in grado di prevedere»).
«Con un terzo dei soldi collocati derivanti da attività criminali, una certa percentuale dai proventi della corruzione e la gran parte da evasione ed elusione fiscale, il sistema offshore è controllato dalle prime 50 banche al mondo — spiega Visco — da esso transita più della metà del commercio mondiale, ospita l’85% delle emissioni obbligazionarie internazionali e la quasi totalità delle società mondiali possiede controllate in paradisi fiscali». Li utilizzano molto le multinazionali, ma anche la «new economy», con i patrimoni delle società costituiti prevalentemente da brevetti, vi ha trovato un riferimento importante.
Qualcosa si sta muovendo (l’Ocse in particolare), tuttavia secondo Visco bisognerebbe «cambiare il modello di sviluppo dell’economia mondiale, passando dall’ideologia del libero mercato alla programmazione, limitare la circolazione di capitali, costituire un’autorità fiscale internazionale, limitare il potere delle banche, sconfiggere l’interesse dell’1% più ricco della popolazione mondiale».