Sule il pittore, Morris lo scultore: storie di profughi artisti
Sule, 26 anni, in fuga dalla Nigeria: «Il sogno è Londra»
«Nel deserto senza cibo, chi cadeva dal camion moriva». Sule Hamza, 26 anni, racconta la fuga dalla Nigeria mentre dipinge alla residenza Fersina. Assieme a lui Morris Odiase, 35 anni: «Felice con uno scalpello».
TRENTO Prima di morire in un incidente stradale, suo padre gliel’aveva promesso: sarebbe potuto andare a Londra per completare gli studi in arte compiuti al politecnico di Auchi, la sua città natale. Il destino, però, ha deciso diversamente. Sule Hamza, 26 anni, nigeriano, disegna e dipinge ancora («Sono nato facendolo» racconta), ma le sue opere sono esposte alla residenza Fersina. Almeno per ora. «L’arte è il mezzo migliore per comunicare con le persone» sostiene mentre mostra i suoi lavori. Un autoritratto, «mama Africa», il volto di una ragazza, il primo piano di un viso maschile metà nero, metà bianco «e mille punti colorati a incorniciarlo perché non importa la razza, we are all humans». Siamo tutti esseri umani. Un ciclo di acquerelli descrive il viaggio che ha intrapreso per arrivare in Italia, dove è giunto a gennaio come richiedente asilo.
«L’arte svolge un’importante funzione psicoanalitica — osserva l’archeologo e antropologo Luca Pisoni, che ha intervistato Sule Hamza a luglio nell’ambito di un progetto di ricerca sulla cultura materiale dei migranti —. Dipingere aiuta nel percorso di rielaborazione dei lutti e dei traumi, altrimenti destinati a rimanere confinati nelle coscienze dei singoli migranti».
«Sahara-Italia: partenza» è il titolo del primo dipinto. Raffigura un pick-up carico di persone.
«Sì, è il mezzo su cui è cominciato il viaggio. Quattro giorni nel deserto senza cibo e con solo acqua calda da bere. Correva a tutta velocità fra le dune, in molti sono caduti nella sabbia e rimasti abbandonati nel deserto o addirittura investiti dal veicolo che seguiva. La prima notte l’abbiamo trascorsa in una grotta infestata da scorpioni e serpenti, e prima di arrivare in Libia ci siamo dovuti arrampicare per quattro ore in una valle rocciosa».
Una volta attraversato il confine cosa è successo?
«Per oltrepassarlo servono molti soldi. Se non li hai ti arrestano. Gli uomini vengono picchiati, le donne violentate. Io ci sono rimasto otto mesi e ho avuto la fortuna di poter lavorare, ma è stato orribile. In mare su un gommone ho trascorso diciotto ore, sono stato salvato da una nave della guardia costiera italiana».
Perché ha dovuto lasciare la Nigeria?
«A infestare il Paese non c’è solo Boko Haram, le persecuzioni contro i cristiani sono all’ordine del giorno, le scuole e le chiese vengono bruciate, le violenze non si contano. Dopo la morte dei miei genitori in un incidente stradale, mia sorella è stata costretta a un matrimonio combinato e non ho più avuto sue notizie. Hanno cercato di convertirmi all’Islam, ma io sono cristiano e non volevo rinunciare alla mia religione».
Vorrebbe andare a Londra un giorno?
«Mi piacerebbe, me l’aveva promesso mio padre. Era un manager della Vega (una multinazionale sudafricana che produce strumenti per la misurazione della pressione, ndr), eravamo ricchi, non sapevo cosa fosse la povertà. Ma anche qui mi trovo bene, ho molti amici italiani che mi aiutano. E quando sto male mi libero dai cattivi pensieri cacciandoli in una tela».