Prg, Ricci esalta l’équipe mista «Un’orchestra»
Mosè Ricci promuove la collaborazione tra Comune e ateneo per la costruzione dell’equipe mista
Non un Piano costruito da un solista, ma «suonato da un’orchestra». Mosè Ricci, docente di Ingegneria e indicato come prossimo coordinatore dell’equipe mista per il Prg cittadino, usa quest’immagine per indicare la sua idea di lavoro. «L’università — prosegue — ha le capacità e le competenze per svolgere questo servizio a favore della città».
TRENTO Ammette di sentirsi «onorato» di essere stato indicato come probabile coordinatore dell’equipe mista che si occuperà della costruzione del nuovo Piano regolatore generale. Ma, per ora, Mosè Ricci preferisce mantenere il profilo basso. «Non c’è ancora nulla di ufficiale» precisa il professore di urbanistica e progettazione architettonica alla facoltà di Ingegneria. Che non nasconde i contatti con Palazzo Geremia. Ma evita ogni personalismo. E parla sempre al plurale, riferendosi al «gruppo di matrice universitaria» che, nelle intenzioni del sindaco Alessandro Andreatta, dovrà elaborare il nuovo Piano.
«È positivo che ci sia una collaborazione tra Comune e università di Trento per la costruzione del Prg: l’ateneo trentino ha le capacità e le competenze per svolgere questo servizio per la città» osserva Ricci, che mostra di condividere la linea indicata da Andreatta: «Ci riconosciamo nel disegno tracciato dal sindaco. La nostra idea è quella di dare un contributo come equipe universitaria. L’elaborazione da parte di uno studio professionale è un’operazione vecchia. L’equipe, invece, è un modo molto interessante per affrontare il rinnovamento della città». Un’impostazione che il docente sintetizza in un’immagine: «Il Piano si suona come un’orchestra, non come solista».
Dei contenuti del Piano è ancora prematuro parlare. Ma qualche indicazione, a giugno, il docente l’aveva data. In un intervento pubblicato sul Corriere del Trentino il professore aveva affrontato la questione della pianificazione cittadina. «Per disegnare il futuro a Trento, come altrove — aveva scritto Ricci — servono modi completamente diversi di guardare agli spazi dell’abitare e al loro cambiamento. Non strumenti compiacenti che prevedano ampliamenti, abitanti e nuovi indici, né di persone che promettono di regalare un sogno con un segno (grigio cemento o verde natura). Politiche che lasciano troppi “cadaveri” sul territorio, idee che non hanno gambe per stare in piedi e bloccano le città nell’attesa di soluzioni impossibili, lasciando avanzare il cemento e l’abbandono». Tre le parole che il professore aveva suggerito. In primo luogo, «il Piano come “narrazione” esprime la necessità di conferire senso al progetto dell’esistente, facendo scoprire con nuovi occhi quello che già c’è. Un’urbanistica capace di ascoltare, accogliere, annettere quelle che sono le tensioni della città e dei suoi abitanti». E poi «il Piano come “performance”, idea dell’innovazione scientifica e tecnologica, principio di estetica urbana. L’urbanistica di prestazione opposta a quella dei segni mette al centro delle trasformazioni non gli usi ma i risultati innovativi prevedibili in termini ecologici. Non solo, rende il territorio accogliente per lo sviluppo sostenibile della vita umana». Infine, «il Piano come “azione condivisa”», che «interpreta lo spirito del tempo che ci porta a superare i processi partecipativi tradizionali, prendendo parte direttamente alle fasi ideative e progettuali dello strumento urbanistico».
La prospettiva «Per disegnare il futuro di Trento servono modi diversi di guardare agli spazi dell’abitare» Parole chiave «Il Piano va pensato come narrazione, performance e azione condivisa»