Massimo Rizzante Un vagabondare da Kundera a Kafka
«Un dialogo infinito perché ciascuno di noi è in dialogo con tutti: con coloro che ci hanno preceduto, con chi vive nelle nebbia del nostro presente, con coloro che verranno. Anche se non lo sa, ogni individuo è un dialogo infinito. Come dico nel libro: «Non può non imitare gli altri. La sua originalità è sempre relativa in quanto si rivela attraverso il dialogo. Come in una fuga musicale: ogni voce imita l’altra, ogni voce è all’ascolto e risponde all’altra, ogni voce è la continuazione dell’altra. Tutte partecipano al grande gioco polifonico dell’esistenza umana esponendo, ciascuna a suo modo, lo stesso tema. Chi decide il tema? Il tema e un mistero».
Ci offre questa visione Massimo Rizzante — poeta, saggista, traduttore, docente di letteratura moderna e contemporanea presso l’Università di Trento — quando gli chiediamo le ragioni del titolo del suo ultimo lavoro Un dialogo infinito. Note in margine a un massacro (Effigie, 2016). Il libro, sarà presentato venerdì a Rovereto, alle 19, alla libreria Arcadia (via Fratelli Fontana). Negli ultimi vent’anni, Rizzante ha viaggiato molto e ha scritto su autori di diversi Paesi, dall’Islanda all’Africa settentrionale, dall’America Latina all’Europa centrale, dal Giappone alla Grecia. Un dialogo infinito permette così di vagabondare tra le opere di Saramago, Fuentes, Kundera, Oe, Goytisolo, Bergsson — che l’autore ha incontra- to e con cui ha dialogato — o fermarsi ad ascoltare le voci più lontane ma sempre presenti di Kafka, Nabokov, Eliade, Andri, o di poeti tanto dimenticati quanto essenziali come Oscar V. de Lubicz Milosz, Lamborghini, Crnjanski, Kachtitsis.
Professor Rizzante, torniamo a «Note in margine a un massacro». Massacro è un termine molto «forte» per indicare cosa?
«Il massacro del sottotitolo forse rinvia alle violenze che la Storia perpetua da sempre. Cos’è la Storia se non questo Leviatano che ripete le sue nefandezze da migliaia di anni? La Storia si ripete, l’arte no. E che cos’è l’arte se non crea qualche isolotto di bellezza che la Storia non aveva previsto? Il massacro potrebbe anche far pensare al disastro di una società, la nostra, in cui non c’è più posto per l’educazione, per quella che i greci chiamavano paideia. E non penso solo alla scuola, all’università, ma all’assenza progressiva di progettualità politica. Senza “homo poeticus” non c’è neppure “homo politicus”».
Lei afferma che oggi non basta concepire la letteratura in modo sovranazionale, ma bisogna tener conto dell’albero genealogico che ogni artista fa crescere e ramificare dalla sua opera e immaginazione. In che senso?
«Oggi forse dovremmo cominciare a superare la nozione di cosmopolitismo, così come ci è stata consegnata dal XIX e dal XX secolo. E questo tenendo conto da una parte che ogni artista è per sua natura un essere extraterritoriale: quando mai un vero scrittore si è nutrito solo della sua tradizione letteraria? Dall’altra, non cadendo nella trappola del “melting pot” o del multiculturalismo concepito come facile soluzione alla coesistenza delle culture. Le culture coesistono se non dimenticano di dialogare tra loro e se allo stesso tempo non si omogeneizzano all’interno di una società senza padri che rimpiazza le autorità spirituali con uno “star system” che tratta tutte le idee, tutti i conflitti e tutti i programmi politici dal punto di vista dell’attualità, come se fossero tutti degni di ascolto e di conseguenza ugualmente privi di significato. Forse il vero cosmopolitismo ha bisogno di radici. Scriveva il grande Christopher Lasch, pensatore americano, “Lo sradicamento sradica tutto, tranne il bisogno di radici”».
Voci “reali” con cui ha dialogato, da Kundera a Saramago a Fuentes, e voci del passato sempre presenti, come Kafka, Nabokov, Eliade: quale filo lega i personaggi che partecipano al dialogo?
«Tutti appartengono al modernismo artistico, un’epoca che si potrebbe far iniziare con I fiori del male di Baudelaire e far terminare con Finnegans wake di Joyce. Ma è quello che si afferma troppo spesso. In realtà i modernisti sono ancora tra noi: Kundera, Goytisolo, Bergsson, Philip Roth, ad esempio. Ma non sono gli ultimi. Ci sono i loro eredi, i quali non si trovano certo ai primi posti delle classifiche dei romanzi più venduti né a sgomitare tra i banchi delle scuole di scrittura o storytelling per diventare firme di grido di collane chiamate “stile libero”: due parole, due menzogne».
«Dove se non in un mondo di ciechi?» Il volume si chiude, non a caso, con «Cecità» di Saramago. L’inizio è con Fuentes e l’idea del «tutto è presente». Dove ci porta questo viaggio?
«Il libro, e quindi il viaggio, termina con un breve saggio sul romanzo di Saramago perché anche una grande disgrazia, come un’epidemia che contagia tutti gli uomini rendendoli ciechi, rivela un aspetto inedito per il romanziere e per il lettore: soltanto in un mondo di ciechi possiamo davvero metterci in ascolto degli altri. Così il nostro mondo sempre più autistico e narcisista potrebbe chiudere per un momento gli occhi, smettere di guardarsi allo specchio e accettare di nuovo la sua umanità che non si dà se non attraverso il dialogo».
Il libro di Rizzante è frutto di vent’anni di viaggi e incontri con autori tra cui Saramago, Fuentes, Kundera, Goytisolo