Corriere del Trentino

«In Libia, un orrore Ci hanno sparato contro Qui mi sento protetto»

Morris, 35 anni, felice mentre scolpisce. «Amo l’Italia»

- E. Fer.

TRENTO Per far felice Morris Odiase basta poco. Un pezzo di legno e uno scalpello. Sotto le sue mani la materia prende vita: una donna africana con il calabash in testa si appresta a vendere il latte di mucca, il suo vicino di casa fuma come era solito fare. «Vengo dallo Stato di Edo — racconta — e quel vecchio ogni sera sedeva fumando fuori da casa sua e mi salutava sempre al mio rientro. Non indossava vestiti, solo un gonnellino attorno alla vita». Appena arrivato in Italia l’ha scolpito nel legno. Ma ci sono anche «Due amanti», titolo rigorosame­nte in italiano: «Quando cammino per la città vedo sempre ragazzini che si baciano» ride.

A causa dell’accento il suo inglese non è facile da capire. E il trentacinq­uenne nigeriano insiste nei dettagli, quasi si trovasse di fronte alla Commission­e territoria­le che deve decidere della sua domanda di protezione internazio­nale. I particolar­i di una storia simile a tante, ma unica nel suo percorso di dolore, sono difficili da dimenticar­e. La scultura, però, la rende felice. «Sì, datemi del legno e uno scalpello e mi vedrete contento. Ora sto lavorando a un altro manufatto, credo che lo intitolerò African queen».

Faceva lo scultore nel suo Paese, in Nigeria?

«No, ero occupato in tutt’altro. Ho fatto moltissimi lavori, dal muratore al panettiere, ma a scolpire il legno ho imparato osservando un amico: un giorno mi sono detto “ci provo anche io” e ho realizzato una maschera, di quelle che si mettono sul viso. Da quel momento sono tornato al laboratori­o ogni giorno».

Fino a quando è stato costretto a fuggire?

«Sì, mia moglie ed io siamo infatti cristiani. Si tratta di una storia lunga e complicata, di persecuzio­ne. Se fossi rimasto sarei finito in prigione o peggio ancora, ucciso. Ho lasciato mia moglie e i miei quattro figli, purtroppo sono riuscito a parlare con loro al telefono una volta sola grazie alla Croce rossa che ha fatto in modo di rintraccia­rli».

Anche lei è passato dalla Libia prima di arrivare in Italia?

«Sì, ed è stato orribile. Sono stato in prigione per quasi otto mesi fra Misurata e Tripoli, vittima di torture. Assieme a me c’erano ottocento persone, nigeriani, gambiani, ghanesi, l’unico modo per scappare era conoscere qualche persona all’esterno che potesse far arrivare dei soldi, ma io non avevo nessuno. Una notte, però, siamo riusciti a fuggire. Ci hanno sparato addosso. Un mio amico, compagno di prigionia, è stato colpito alla testa a due passi da me».

Cosa è successo dopo la fuga?

«Sono scappato a Zuara, dove un uomo di nazionalit­à araba mi ha fatto lavorare in un autolavagg­io e poi mi ha fatto salire su una barca. Sono rimasto in mare da mezzanotte alle sette del mattino prima che una nave ci salvasse: mi sono trovato ad Agrigento e da lì a Trento».

Come si trova qui?

«Amo l’Italia e penso che passerò qui il resto della mia vita. Mi sento protetto. In questi mesi non ho mai visto un poliziotto estrarre la pistola dalla fondina, mentre finora ho vissuto regolarmen­te con un’arma puntata in faccia».

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Nel legno Morris Odiase al lavoro con scalpello e mazza presso la residenza
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Lavori Alcune sculture di Odiase

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