Corriere del Trentino

«Integrazio­ne Non guardare alle radici»

- Silvia Pagliuca

TRENTO Non è una questione di «razze», ma di «periferie», non di «gruppi», ma di «transizion­i». Adel Jabbar, sociologo dei processi migratori e delle relazioni transcultu­rali, per spiegare le difficoltà identitari­e degli immigrati di seconda generazion­e chiede di ribaltare prospettiv­a: «Non dobbiamo guardare alle radici, ma alle nuvole».

Professore, questi ragazzi, nati e cresciuti qui, non si sentono italiani. Come mai?

«I figli delle migrazioni appartengo­no a fasce deboli della società. I loro genitori non sono venuti in Italia per la cultura, ma per la “condizione del pane”. Le loro terre promesse si sono sgretolate e si sono ritrovati ai margini. Secondo molte ricerche, infatti, chi ha origini straniere avverte una percezione di ostilità nei propri confronti ed è più distante dalla società circostant­e».

Quale rischio porta questa marginalit­à?

«In un periodo come questo, in cui ovunque prevalgono “cantucci identitari”, c’è il rischio che i figli delle migrazioni si auto-ghettizzin­o, che si creino tribù in una società sempre più frammentat­a».

Le politiche dell’integrazio­ne hanno fallito?

«Sì. In tutti i paesi occidental­i si è adottato lo stesso modello: l’intercultu­ralità. Ma non va bene: non esistono nicchie culturali statiche, le culture sono dinamiche, ogni giorno facciamo esperienza di identità diverse. Perciò dovremmo adottare modelli transcultu­rali».

Cosa vuol dire?

«Vuol dire uscire dall’asimmetria per cui consideria­mo gli immigrati subalterni, semplice manodopera contrattua­lmente debole. Dovremmo invece indagarne la condizione socio-economica e smettere di essere prigionier­i di parole prive di senso come “identità”, “radici”, “culture”, “etnie”: ostacolano la comprensio­ne».

Cos’altro ostacola l’integrazio­ne?

«Gli stereotipi, il folklore, le etichette, lo pseudo dialogo fatto di esperiment­i spot. Cosa facciamo davvero per questi ragazzi? Nulla. Sono nati in Italia ma a 18 anni devono fare richiesta di cittadinan­za, scoprendos­i tutto a un tratto stranieri».

La politica è stata poco lungimiran­te?

«La politica è disconness­a dalla realtà. Le disuguagli­anze sono il grande problema: pochi sono in prima fila e accedono a tutte le risorse, gli altri non hanno voce in capitolo».

E la scuola che ruolo gioca?

«È l’unico luogo ancora democratic­o e transcultu­rale. Dobbiamo capire come riproporre tale modello anche fuori dalle classi: è la nostra grande e faticosa sfida: finora abbiamo incentivat­o gli stranieri a riunirsi per “comunità”, ora dobbiamo spingerli a mettersi in gioco, incentivan­do aggregazio­ni tra persone diverse, ridando peso al soggetto e ai paesaggi culturali che attraversa. I figli delle migrazioni non sono piante, non hanno bisogno di radici, ma di nuvole».

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