«Limone ruffiano» Cibo e convivialità
È da poco uscito l’ultimo saggio di Nadia Scappini Attraverso ricettari delle nonne, ricerche storiche e racconti l’autrice riscopre il valore culturale e sociale della cucina Il libro
Nadia Scappini, poetessa, critico letterario, scrittrice di racconti nonché promotrice di incontri culturali importanti, esordisce nel 2012 con un suo primo romanzo: Le ciliegie sotto il tavolo (Edizioni Marietti), con il quale riesce a coinvolgere il lettore già dal titolo evocante momenti preziosi di un’infanzia colma di brividi d’attesa e di sapori mai dimenticati. Anche Limone Ruffiano il libro che Nadia Scappini ha recentemente presentato, nasce dalla volontà di tramandare una memoria corale, questa volta legata al cibo e al benessere che da esso deriva.
Secondo l’autrice, il cibo nutre l’anima e, con i suoi profumi e i suoi sapori, nutre soprattutto i ricordi, non solo dei singoli individui ma anche della collettività. La narrazione di Limone Ruffiano prende vita dal ricordo di due donne, due mamme: la madre di Nadia e la madre del marito dell’autrice. La prima affiora nella memoria di Nadia Scappini portando con sé il ritornello sulle «qualità mirabolanti del limone» che lei definiva «un gran ruffiano» perché sta bene ovunque. Della seconda madre Nadia Scappini recupera un «quadernone di ricette», risalente alla seconda metà degli anni Trenta del secolo scorso, rigorosamente scritte a mano, da lei, italiana di lingua slovena, che abitava in un paesino di confine di nome Ledine (ora Slovenia) e frequentava a Gorizia una scuola di economia domestica.
L’autrice ci propone un libro conviviale, intessuto di ricordi e di riflessioni sul cibo, e soprattutto di ricordi legati ad esso. L’idea le viene da un simpatico libro di Simonetta Agnello Hornby, Un filo d’olio, letto in un paio di pomeriggi all’ombra nel cortile della casa polesana dei nonni paterni. Sono questi i punti di partenza, che si legano alle riflessioni personali dell’autrice sulla natura stessa del cibo. Secondo lei il cibo porta con sé una straordinaria sinestesia: un cibo si guarda, si tocca, si odora, si gusta ma lo si può anche ascoltare. Il cibo nutre l’anima, e con i suoi profumi e i suoi sapori nutre soprattutto i nostri ricordi. «È vero che i buongustai si esaltano di fronte a un piatto tecnicamente perfetto, ma è altrettanto vero che l’emozione arriva solo dai piatti capaci di riportarli indietro nel tempo, di coccolarli restituendo, insieme al sapore, il gusto di un’età. Attraverso riflessioni personali e di importanti scrittori, ricordi, aneddoti e brevi racconti intercalati a ricette e consigli di mamme, nonne, zie, amiche da tutt’Italia si compie un itinerario che diventa una piccola storia italiana del cibo. Le persone (personaggi noti e non) che hanno volentieri partecipato al progetto, lo hanno fatto con una loro testimonianza. Non a caso nell’ultima sezione del libro, dedicata alle merende d’una volta (quasi quaranta le testimonianze/racconto di persone qualunque e di personaggi noti come Susanna Tamaro, Elisabetta Sgarbi, Paolo Ruffilli, Gherardo Colombo, mons. Dario Edoardo Viganò, Alberto Sinigaglia, Gianfranco Lauretano, Massimo Morasso, Azio Corghi, Pietrangelo Buttafuoco, Paolo Di Stefano, Vera Slepoj), chi scrive carica di suggestioni il proprio ricordo nel tentativo di recuperare, insieme al sapore del cibo, quello di un’età - felice o meno che sia stata - dove il potenziale di vita era ancora intatto e chiedeva solo di essere dipanato.
Visto che mi interesso di tradizioni e di cultura e poiché ritengo che il cibo sia cultura, mi diverte molto scrivere di questo libro dell’amica Nadia. Certo se il proverbio «parla come mangi», ha come tutti i proverbi, fondamenti storico-etico-culturali, la nostra cultura è autorizzata a essere se non altro mista. Ma tralasciamo. In fondo
«parla come mangi» era una proverbio un po’ classista. Voleva forse dire rimani nel tuo stato o nel tuo brodo, per parlare in termini culinari, e non azzardarti a voler essere o parere di più.
Nel suo Breviario tedesco Brecht ironizzava: «Per chi sta in alto discorrere di mangiare è cosa bassa. Si capisce: loro hanno già mangiato!». È noto che la famosa frase assonante Der Mensch ist was er ißt,
«l’uomo è ciò che mangia» di Feuerbach, è considerata come un emblema del materialismo. In realtà, però, potrebbe essere assunta con un’altra interpretazione. Il cibo, infatti, in tutte le culture è anche simbolo di comunione nella gioia (si pensi alle parabole nuziali di Gesù che comprendono un banchetto), nel dolore, nell’ospitalità (basti leggere la deliziosa scenetta narrativa di Abramo che accoglie i tre ospiti ignoti nel capitolo 18 della Genesi).
Aveva ragione il magistrato francese Anthelme Brillat- Savarin quando osservava nella sua celebre Fisiologia del gusto (1825) che «gli animali si nutrono, l’uomo mangia, l’uomo di spirito pranza». Io invece lo ritengo uno stimolo a recuperare i buoni vecchi usi antichi per i quali si mangiavano ciliegie e fragole in primavera, pesche e albicocche d’estate e arance e castagne d’autunno. E questo solo per quanto riguarda la frutta.
Comunque l’atto del mangiare non è solo nutrimento ma appartiene al registro del desiderio. Il neonato trova consolazione dall’abbandono del paradisiaco ventre materno nel suggere al seno. La bocca diventa strumento di conoscenza e piacere. Ed il cibo è nelle relazioni con gli altri strumento di condivisione e di incontro. La tavola è il luogo per eccellenza per stringere amicizie. Attorno alla tavola nasce il linguaggio che investe sfera affettiva ed emozionale. Mangiando l’uomo coglie al pieno il suo legame con la terra, il lavoro, la società. Mangiando si assume il mondo in noi e lo trasformiamo: noi siamo ciò che mangiamo.
Un consiglio: godiamoci questo Limone Ruffiano di Nadia Scappini che è, come scrive Ernesto Ferrero nella postfazione al libro: «Storia collettiva e le piccole storie quotidiane di ognuno, secoli e millenni di esperienze, di pratiche, usi, costumi, sperimentazioni, scoperte, credenze, miti, leggende. Il focolare è il tempio della sapienza popolare, che le generazioni affinano e tramandano. È memoria codificata, produzione collettiva, come i grandi poemi epici dell’antichità, cui ogni cantastorie aggiungeva nuovi episodi, o abbelliva quelli già noti». Tutto questo anche se «oggi la cucina è diventata spettacolo televisivo, moda, esibizionismo, ricerca di effetti speciali, ostentazione, manierismo: qualcosa che si sta avvicinando alla pornografia. La difesa dell’umano passa anche per quei teneri, preziosi mattoncini carichi di memorie e di sapienza che sono i “ricettari famigliari”».