«Troppi nazisti morti in pace nei loro letti»
Loner rilegge la vicenda del lager di Bolzano e di Seifert. La necessità di ricordare
TRENTO «Un giorno squarciarono il ventre a un ragazzino di 15 anni che era stato internato perché sorpreso da alcuni fascisti fuori dal cinema con indosso una sciarpa rossa, a detta sua confezionata dalla fidanzata, ma ai loro occhi prova della sua fede comunista». Inizia con questa agghiacciante testimonianza il sesto incontro del ciclo «Figure e momenti di storia regionale», che Biblioteca archivio del Csseo e Fondazione Museo storico del Trentino dedicano alla storia del Durchgangslager (campo di transito) di Bolzano e al suo carnefice, il caporale delle Ss Michael Seifert. In questa triste pagina di storia c’è però anche una piccola ma quanto mai necessaria vittoria: fuggito in Canada nel 1951, il militare è stato infatti condannato all’ergastolo dal tribunale di Verona per 11 omicidi da lui compiuti nel lager e dopo una lunga battaglia legale è stato estradato nel 2008 e tradotto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove è deceduto nel 2010. Questo è l’unico processo, assieme al processo Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui la giustizia ha fatto il suo corso.
«Troppi nazisti — tuona l’avvocato Arnaldo Loner, che al processo rappresentava il Comune di Bolzano, costituitosi parte civile — sono morti in pace nei loro letti. Su 400 medici nazisti solo 20 sono stati condannati a morte, gli altri non sono stati neanche radiati dall’albo. A chi dice che riesumare casi come questo è un’operazione di archeologia giudiziaria rispondo che invece si tratta di atti dovuti ai tanti sopravvissuti che si sono tolti la vita perché non potevano reggere il peso del male che era stato inflitto loro». L’avvocato cita lo scrittore Jean Amery, sopravvissuto ad Auschwitz e morto suicida nel ’78. «Amery — dice — aveva avuto le spalle fracassate dai nazisti, ma quel dolore gli pesava meno della consapevolezza che ad infliggerglielo erano stati altri uomini, che dopo aver ucciso una donna incinta tornavano a casa per dare la buonanotte ai figli o nutrire il canarino. Ecco i processi ai nazisti servono a ricordare ai sopravvissuti e ai loro discendenti che sì, sono stati degli uomini a portarli all’inferno, ma che altri uomini si sono impegnati affinché fosse fatta giustizia». Ed ecco la necessità di conoscere per ricordare, attraverso una memoria che se per ragioni anagrafiche è sempre meno vissuta, sempre più deve diventare trasmessa, una memoria che si fa documento probatorio come in «Sotto gli occhi della morte», il libro del notaio trentino Aldo Pantozzi che, sopravvissuto a Mauthausen lo diede alle stampe nel 1946. L’uomo seduto al mio fianco mi passa un’edizione originale. «Mio padre era amico del notaio — mormora, mentre Loner spiega che la biografia venne usata come prova durante il processo di Norimberga — e se non fosse stato per un caso fortuito anche lui sarebbe stato tra gli 11.000 prigionieri di Bolzano».