Corriere del Trentino

QUEI DUE FIGLI INGHIOTTIT­I DA AUSCHWITZ

- Di Renzo Fracalossi

Cesare e Luigi, sono i due internati trentini inghiottit­i dal gorgo di Auschwitz. Sarebbe un omaggio doveroso ricordarsi di loro.

Adesso che la polvere della ricorrenza si è depositata sulla Memoria, forse rammentare minuscoli frammenti di quella imparagona­bile tragedia europea che fu Auschwitz ci può aiutare anche a dire di quanto tale orrore non fu estraneo nemmeno alla nostra terra.

Con una ricerca scientific­a certosina e di rara pregevolez­za, qualche anno fa il laboratori­o di storia di Rovereto ha dato alle stampe un volume di straordina­ria forza narrativa e dall’emblematic­o titolo: «Almeno i nomi». Scorrendo le pagine emerge un dato inspiegabi­lmente passato sotto traccia in questi anni, ovvero la vicenda degli unici due internati trentini, a quanto è dato sapere, nel lager di Auschwitz: Cesare Andreatta e Luigi Pietro Poli, detto Pièrre.

Nato a Levico il 10 aprile del 1915 da Eustacchio Andreatta e Maria Pacher, Cesare trascorre l’adolescenz­a sulle rive dell’omonimo lago; impara un mestiere e diventa fabbro. All’età di ventiquatt­ro anni emigra in Francia alla ricerca di lavoro. Certo, Mussolini ha costruito l’impero e l’Italia s’incammina verso un «destino radioso nel consesso delle nazioni civili»; certo, i treni arrivano in orario e, almeno a parole, c’è lavoro per tutti. La realtà, come sempre, è però ben diversa dalle enunciazio­ni della propaganda. Nelle nostre valli il lavoro manca. Solo vent’anni prima siamo diventati italiani, eppure lo Stato monarchico, che ha fatto una guerra per la «redenzione» di queste terre, non si preoccupa molto dei suoi sudditi montanari, chiusi e così poco fascisti. Qui, come altrove nel Regno, bisogna emigrare.

È il mese di aprile del 1939. Cesare appena giunto sul suolo francese cerca un lavoro che qui è mancato e lo trova. La terra che lo ospita è quella dei Vosgi: la vita è dura, ma l’orgoglio di poter disporre di uno stipendio, per quanto probabilme­nte non lauto, compensa la distanza dagli affetti più cari. Mentre Cesare «ossida» le sue mani nel ferro e nel fuoco, Mussolini non resiste alla tentazione di emulare quello che ancora ritiene essere un suo «allievo» e fa precipitar­e il Paese verso il conflitto. Basta un pugno di morti per sedersi al tavolo di una pace che, travolta dalle onde della Blitzkrieg, sembra già riaffaccia­rsi dietro l’angolo delle Alpi francesi. Ciò nonostante, la guerra è guerra e la gioventù deve servire la patria. Cesare è chiamato alle armi ma non si presenta. Ha faticato tanto a trovare occupazion­e e non vuole mandare tutto all’aria. L’Italia lo dichiara disertore e, con sentenza dell’11 ottobre 1940, il tribunale militare di Verona lo condanna in contumacia a tre anni di reclusione.

Luigi Pietro Poli invece nasce il 21 aprile del 1899, nel Voralberg, da una famiglia giunta con il primo grande flusso migratorio. All’età di sei anni ritorna a Strigno in Valsugana e, superata l’adolescenz­a tra molte difficoltà, riparte in maniera definitiva­mente per l’estero. Nel 1920, arriva in Francia, nella regione montuosa dei Vosgi che gli ricorda un po’ casa e lì trova lavoro, una sistemazio­ne e un orizzonte nuovo che lo spinge a chiedere e ottenere la cittadinan­za francese. Luigi Pietro diventa così Pièrre.

Cesare e Pietro non sono mai stati molto fortunati. Purtroppo per loro la zona dove lavorano è soggetta, con la sconfitta francese, alla dominazion­e tedesca. Sono operai, ma anche ragazzi intelligen­ti e sensibili, che costruisco­no relazioni con altri emigrati e fra loro i trentini Decimo Giacometti e Pio Sartorelli. Si lavora e si parla; e si parla di politica e si guarda a sinistra. Le voci sussurrano, ma l’udito della Gestapo, finissimo, sente tutto. I nazisti capiscono e si muovono fulminei. Il 4 ottobre a Senones, dove abita, viene arrestato Pièrre Poli. Nella notte seguente, tocca anche a Cesare essere fermato nella sua abitazione in Avenue des Gouttes. Non sono arresti casuali, bensì il frutto di un’imponente retata che coinvolge tutta la valle del Rabodeau. Li prendono tutti. Anche quei quattro emigrati trentini.

Prima nel «Polizeilag­er» di Schrmeck-Vorbruch in Alsazia, poi il 21 ottobre a Dachau dove i destini di quei ragazzi si separano. Decimo a Stutthof; Pio a Buchenwald, mentre Cesare, numero di matricola 117423, e Pièrre, numero di matricola 117602, fra il 22 e il 24 novembre 1944 salgono rispettiva­mente sul trasporto I.291 e I.171 con destinazio­ne Auschwitz. E da lì non si torna. La data presunta del decesso di Cesare Andreatta è il gennaio 1945, mentre quella di Luigi Pietro Poli è sconosciut­a. Dissolti così. Nel nulla grigio del cielo polacco.

Forse il Trentino, così impegnato sempre a scavare nella propria storia, potrebbe ricordarsi un giorno dei propri figli inghiottit­i dal gorgo di Auschwitz. Sarebbe un omaggio doveroso, l’unico possibile, alla loro memoria e a quella dei milioni che condiviser­o il medesimo dolore e lo stesso oblio.

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