MATURITÀ, ESAMI IN CINESE E L’ITALIANO DA STUDIARE
Bene, ci siamo arrivati. Leggo che a Trento per la prima volta una prova della maturità in un liceo linguistico riguarderà il cinese, o mandarino che dir si voglia. Immagino che di questo passo presto si arriverà anche all’arabo. Per carità, il mondo si evolve e le lingue sono sempre più importanti, non solo l’inglese. Ma in tutto ciò, considerando anche certi obbrobri che leggiamo in giro (una pubblicità televisiva per San Valentino scriveva a caratteri cubitali «un’amore» con l’apostrofo) non c’è forse il rischio di trascurare un pochino la cara, vecchia lingua di Dante? Lino Zampieri, BOLZANO
Farei necessariamente delle distinzioni, evitando di mescolare le due questioni da lei toccate, anche perché imparare bene una lingua straniera presuppone di possedere una buona base d’italiano. In una società multietnica le barriere, anche linguistiche, vanno superate. Non sempre ciò accade, vero, ma la strada è segnata. Quindi o ci adeguiamo, oppure saranno le trasformazioni in atto a dettarci i tempi e a travolgerci. La sperimentazione attuata dal liceo linguistico Scholl va proprio in tale direzione. Qualcuno potrebbe sorprendersi della scelta caduta sul cinese. Ma non è così. Un dato: al primo gennaio 2016, l’Istat indicava in Trentino Alto Adige la presenza di 2.262 cinesi (nel 2010 erano 1.631), più a Trento che a Bolzano, e il trend è in continua crescita.
C’è poi il discorso legato al mercato. In Trentino l’asse con la Cina vale 44,6 milioni di euro per le esportazioni (dati 2015) con 84 imprese che hanno bussato alle porte del Paese del Dragone. Ora il ministero di promozione degli investimenti del Sichuan ha deciso di aprire una sede a Trento, la prima in Italia, quarta in Europa. Insomma, il dialogo è avviato e può aprire interessanti orizzonti. Parlare il cinese, perciò, può essere decisamente utile. Dall’altra parte, però, l’italiano rimane la lingua madre e non c’è dubbio che stiamo assistendo a un pericoloso impoverimento. L’allarme è stato lanciato, ma si fatica a coglierne l’esatta portata. Scomodiamo allora alcune recenti e sconfortanti statistiche che valgono più delle parole: il 20% dei laureati italiani rischia l’analfabetismo funzionale, cioè la perdita degli strumenti minimi per interpretare e scrivere un testo anche semplice. E la percentuale sale tra i diplomati dove il 30% rischia il semi-analfabetismo di ritorno. Una delle cause può essere l’abbandono della grammatica e della fatica della sintassi. Ce n’è abbastanza per portare avanti la battaglia iniziata anni fa dal professor Tullio De Mauro per salvare l’italiano.