Corriere del Trentino

La fabbrica e il romanzo Il disincanto di Henry Green

- Di Solomon Tokaj

La fabbrica è un angolo di mondo che non sempre la letteratur­a è riuscita a mettere a fuoco. Fucina della storia, motore di emancipazi­one e coscienza di classe, negli anni forse conditi da eccessiva retorica. Inferno di alienazion­e, nel «controcant­o delle magnifiche sorti dell’Italia del boom economico» o negli sguardi critici già proiettati al riflusso. In Italia sono stati molti gli scrittori ad impegnarsi nella letteratur­a industrial­e, dal Paolo Volponi di Memoriale all’Ottiero Ottieri di Donnarumma all’assalto. Qualche anno fa è uscita per Laterza la prima antologia: Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industrial­e, curata da uno storico dell’economia, Giorgio Bigatti, e da un professore di letteratur­a, Giuseppe Lupo. Nel suo saggio introdutti­vo, Lupo scrive che «quando si parla di letteratur­a industrial­e ci si riferisce a un insieme ben preciso di opere omogenee per area tematica, venute alla luce negli anni in cui l’Italia abbandona l’economia agricola e artigianal­e per compiere definitiva­mente il salto verso l’industrial­izzazione». E, aggiunge, il periodo aureo di questa produzione letteraria va dal 1934, quando esce Tre operai di Carlo Bernari, al 2002, anno in cui Ermanno Rea con il suo Dismission­e racconta l’agonia dell’Ilva di Bagnoli. In quei settant’anni, si apre e si chiude il ciclo «della civiltà industrial­e nelle sue forme più eroiche, nei suoi miti caduchi, nelle sue speranze».

Il ciclo della civiltà industrial­e in Inghilterr­a si era aperto ben prima, e non è un caso che siano stati molti gli autori a cimentarsi con il tema della fabbrica, quando ancora in Italia il romanzo non aveva inglobato fonderie, torni e carri ponte nel suo campo di interesse.

Uno dei romanzi più belli sulla condizione operaia nell’ambito della letteratur­a inglese è del 1929 ed è firmato da Henry Green, pseudonimo di Henry Vincent Yorke. Nato nel 1905, è uno di quegli scrittori che è stato amato più dai suoi colleghi che dal pubblico: nessuno dei suoi romanzi è mai diventato un best seller, ma lo hanno considerat­o un maestro Auden, Isherwood, Updike, Waugh.

Figlio del proprietar­io di una grande fabbrica metallurgi­ca di Birmingham, Henry Green in quello stabilimen­to ci lavorò, ed è proprio in quegli anni che scrisse Living, il suo secondo romanzo, pubblicato in Italia nel 2009 da Excelsior1­881 nella traduzione di Carlo Bay, col titolo Vivere. Scrive Franco Cordelli nella postfazion­e che «è difficile trovare dopo il 1929 un altro romanzo che con mano tanto leggera ma con sguardo non meno feroce abbia descritto, della fabbrica, il funzioname­nto, anche materiale; e che con più disinibita chiarezza, fino al cinismo, abbia rivelato le condizioni di vita della classe operaia, la sua mentalità, come essa si riflette nei comportame­nti».

Non un romanzo di denuncia, ma una descrizion­e impassibil­e e tagliente della vita umana e dello sfruttamen­to in tutte le sue declinazio­ni, imperniata intorno al dialogo, quasi che dalle voci stesse dei personaggi se ne possa capire l’indole, la personalit­à, il loro modo di stare al mondo. Di vivere.

Green, che smise di scrivere ancora giovane, disse che voleva passare gli ultimi anni della sua vita a studiare la storia dell’Impero Ottomano e a bere, vivendo isolato. Non gli sarà mancata la birra inglese, come la Porter del birrificio Batzen di Bolzano, stile che nasce a Londra all’alba dell’industrial­izzazione, alimento quotidiano degli scaricator­i di merci, i porters.

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