La codificazione dell’antisemitismo
Una nota recente della Commissione europea, forse passata in secondo piano, ci informa che la stessa ha deciso di inserire nel proprio sito ufficiale la definizione di antisemitismo. Definizione già adottata nel maggio 2016 a Bucarest dall’International Holocaust Remembrance Alliance, ovvero la rete intergovernativa che comprende 31 Paesi, di cui 24 membri dell’Unione europea. Si tratta di una notizia che può essere accolta con soddisfazione; se, come si spera, la Commissione europea dovesse anche ufficialmente adottare tale definizione, rappresenterebbe un segnale ancora più concreto di impegno nella lotta all’odioso fenomeno.
Certo la definizione di antisemitismo, per come è stata formulata, appare alquanto scialba e banale, e nel leggerla si ha l’impressione che il fenomeno a cui si riferisce non sia poi così preoccupante. «L’antisemitismo a nostro parere è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa con manifestazioni retoriche e fisiche dell’antisemitismo e sono dirette a individui ebrei e non ebrei o ai loro beni, a istituzioni comunitarie e ad altri edifici a uso religioso e non solo».
Il testo adottato dalla Commissione europea contiene, oltre alla pur blanda definizione di antisemitismo, anche alcune importanti precisazioni. Una tra le più significative è che l’antisemitismo può comprendere anche gli attacchi sistematici allo Stato di Israele, concepito come collettività ebraica, e si forniscono diversi esempi di come tali accuse possano rappresentare, al di là di ogni legittima critica politica, delle forme di antisemitismo. Nel documento si puntualizza altresì che le critiche rivolte a Israele, che sono simili a quelle mosse a qualsiasi altro Paese, non possono essere considerate antisemite.
Vale la pena ricordare a tal riguardo alcuni segni che possono definire l’antisemitismo: «Accusare gli ebrei in quanto popolo, o Israele in quanto Stato, di inventare o esagerare l’Olocausto»; «negare al popolo ebraico il proprio diritto all’autodeterminazione, cioè sostenere che l’esistenza dello Stato di Israele è un atto di razzismo»; «tracciare paragoni tra la presente politica d’Israele e quelle dei nazisti»; «ritenere gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato d’Israele»; «usare i simboli e le immagini associate all’antisemitismo classico (per esempio le accuse agli ebrei di deicidio) per caratterizzare il popolo ebraico, Israele e gli israeliani».
Questi pochi esempi appaiono decisamente utili, appropriati, pertinenti per definire il concetto. Diciamo anche che sarebbero tutte delle ovvietà, se non vivessimo in un mondo nel quale, per esempio, dei giudici di un tribunale tedesco possono tranquillamente sentenziare che incendiare delle sinagoghe non è antisemitismo, ma è critica alla politica dello Stato di Israele.
Particolarmente inopportuno, a mio avviso, il riferimento al trattamento sempre riservato allo Stato ebraico. Le parole pronunciate dal tribunale tedesco fanno una certa impressione e sembrano ricalcare, là dove si distingue il «trattamento speciale» tra lo Stato di Israele e il popolo ebraico, alcuni pronunciamenti già sentiti alle Nazioni Unite.
Con ottimismo quindi guardiamo al significato di questo piccolo grande passo e restiamo in attesa, con cauta fiducia, di ulteriori segnali nella direzione di un impegno che deve essere continuo, concreto e svolto a ogni livello educativo, culturale e politico. E, siccome del «trattamento speciale» fa parte anche il semplice parlare dello Stato di Israele, la cui morbosa sovraesposizione mediatica è anch’essa un sottoprodotto dell’antisemitismo, sarebbe forse utile che l’Europa d’ora innanzi si occupasse di Israele con maggiore consapevolezza. Parlandone, se possibile, con più obiettività, con più rispetto, con più equilibrio.