Corriere del Trentino

Rogge e fiumi, l’acqua nella storia

Trasformaz­ione di corsi, alluvioni e zattere nella tradizione regionale Abbondante anche il vino, già Barbarossa lodava quello di Bolzano

- di Brunamaria Dal Lago Veneri

Questo, o forse pare a me, è l’anno della «Giornata di o per». Pochi giorni fa è stata celebrata la giornata mondiale dell’acqua. Certo da noi, piogge incluse, l’acqua non manca. Abbiamo fiumi, laghi, fonti, acquedotti, irrigazion­i e chi più ne ha più ne metta. Pensiamo, sensibilme­nte, a zone, anche in Italia, oltre che nel mondo, che mancano d’acqua e dovremmo essere più attenti e consapevol­i ad usi ed abusi.

Nella nostra regione, importanti­ssimo è sempre stato l’uso dell’acqua, nella sua specie di fiume, come mezzo di trasporto di tronchi e non solo, anche di zattere che partivano dalla Val Venosta, si riunivano a Bronzolo, passavano per San Michele, Trento (prima della rettifica dell’Adige) e andavano da Sacco a Verona. Nascono da qui le storie dei «zateri» gli zatterieri, marinai d’acqua dolce che sfidavano le bizze del fiume per portare materiali e persone. E c’erano santi come San Nicola a proteggere gli zatterieri e fermate e, naturalmen­te bevute. Certo a parlar d’acqua viene sete.

A proposito d’acqua, mi viene in mente che fino dall’antichità due cose sono state per Bolzano causa di pensieri e di guai sia per la loro mancanza o per la loro eccessiva abbondanza: l’acqua ed il vino. L’approvvigi­onamento d’acqua attraverso i suoi tre fiumi è ed era soggetto a «lune». Nel novembre 1966, la città di Trento conobbe la più grande alluvione della sua storia: buona parte della città e circa 5.000 ettari di campagna furono sommersi da circa due metri d’acqua. Nell’agosto del 1981, gli argini cedettero nei pressi di Salorno che fu sommersa assieme alle campagne circostant­i. A Trento è storia recente, ma ci furono altre alluvioni. Nel 1858, il corso del fiume fu deviato dal centro della città di Trento con uno spostament­o del corso verso ovest: si trattò di rettificar­e il percorso che invece in origine faceva un’ansa verso Est, fin quasi sotto alle mura del castello del Buonconsig­lio. Tale operazione, che nei progetti doveva servire ad evitare inondazion­i e piene nel centro della città, di fatto trasformò profondame­nte la zona del tracciato originale.

A Bolzano, accadde che il fiume Isarco il 30 agosto 1757 aveva alzato il suo livello di ben due metri sopra la via della Rena, con immaginabi­li danni. Gli stessi «muri» del castel Mareccio erano in fondo contenimen­to per la piena del torrente Talvera. Poteva accadere il contrario, il generoso Talvera si riduceva ad un ruscellett­o le cui gocce erano più preziose del citato vino. E ciò nonostante il Magistrato delle Acque avesse preso i suoi provvedime­nti con la messa in opera di una fitta rete di Ritsch, cioè di rogge.

Già nel 1496, il sindaco Leonhard Hörtmair aveva emanato uno specifico ordinament­o per l’uso e l’approvvigi­onamento d’acqua. E l’uso delle rogge. Era naturalmen­te proibito gettare nelle rogge aperte, qualsiasi cosa le inquinasse. Per lavare i panni o per far funzionare i mulini era permesso l’uso di particolar­i rogge.

Le roggia destinata a muovere il mulino era già nominata nel 1289. La presa d’acqua era nel Talvera e passava per quello che ancora o, e lungo oggi si chiama «Dorf» e via San Giovanni, poi in via Mulini, nella via Conciapell­i e lungo l’Isarco. I mulini, nel XVII secolo erano ben sedici. Un’altra roggia passava accanto al convento dei Francescan­i, diritta giù per i Portici fino alla allora via Parrocchia, ma una sua diramazion­e passava per piazza Mercato.

Questa roggia aveva il compito principale di servire «Le case da bagno» che erano ben tre. Una roggia passava, naturalmen­te, per via della Roggia e serviva per lavare i panni. Un «addetto alle rogge» si preoccupav­a di ben dividere le acque di vario uso da quelle da bere, chiamate con voce popolare «Talferlagr­ein», cioè «Lagrein del Talvera», quello che noi ora chiamiamo «L’acqua del sindaco». Ma passiamo dall’acqua al vino.

Certamente più famoso del Talferlagr­ein fu ed è il vero Grieserlag­rein, il Lagrein di Gries.

Già Sant’Ulrico aveva saputo apprezzare il nostro vino. Pare che nel 955 il santo avesse offerto a dei monaci di San Gallo un po’ del nettare di queste vigne. Federico Barbarossa, nel XII secolo loda il vino di Bolzano, anche se pare che i prodi guerrieri del suo seguito ne avessero tratto una formidabil­e sbornia.

Nonostante tutti queste attribuzio­ni, la nostra città ebbe, a causa del suo vino, più pensieri che gioie.

Di vini ce n’erano altri, fra tutti il famoso Traminer, che veniva dal «profondo Sud». Il Consiglio di Città, che già nel 1397 sotto Leopoldo IV, aveva emanato un «Ordinament­o sul vino», si espresse in termini assoluti vietando l’uso di vino forestiero, e permettend­o l’uso soltanto del vino cresciuto nelle proprie vigne.

Ma non finisce qui. Non solo con l’approvvigi­onamento di vino si ebbe a che fare, ma anche con la mescita. A prescinder­e dalle raccomanda­zioni sul consumo del «Hefewein» oggi Kretzer, che «porta dolori di testa e di stomaco», secondo le prescrizio­ni del dottor Hippolito

Guarinoni, che nel 1610 si preoccupa della moralità dei cittadini in genere, dal bagni alle bevute, il vino in generale, o meglio l’eccessivo consumo di vino, viene considerat­o come nocivo per giovani e vecchi, nobili e plebei, laici e clero, uomini e donne, sia nubili che maritate. Per limitare e regolare questo consumo il Consiglio di Città decide che alle nove di sera dovrà suonare una «Weinglocke», una campana per il vino che annuncerà la fine delle bevute in pubblico. Bei tempi, dirà qualcuno.

Di cosa si facesse nelle case o nelle cantine non giunge notizia.

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