La docente dell’università di Pisa si confronterà a Trento con Ermes Maria Ronchi
dialettico con la socialità rappresenta un aspetto importantissimo: non si possono avere delle buone relazioni con gli altri se non si è in grado di stare bene con se stessi. La solitudine, in tal senso, è il momento del ripensamento, dell’introspezione, dell’immergersi in un romanzo, in una musica, e trarne spunti di crescita. È lo spazio in cui a distanza si ripensano le esperienze vissute, anche con le altre persone».
Come instaurare un rapporto proficuo tra solitudine e socialità?
«Spesso siamo spinti verso una socialità forzata. Penso, ad esempio, a festività quali il Natale o Capodanno, che dovrebbero essere momenti di massima condivisione e di minore fragilità, invece sono i giorni in cui si registra, fra l’altro, il maggior numero di suicidi. Sono spesso occasioni di dolore e sofferenza perché si deve fingere una felicità a tutto tondo. Anzi, per chi è costretto a fare i conti con la perdita di una persona cara, sono i giorni di maggiore tristezza».
Il punto è che si è portati a trattenere certi stati d’animo negativi per non pesare sugli altri.
«A Natale bisogna essere se stessi più che negli altri giorni. A prescindere dall’essere religiosi o meno, in Italia chiunque festeggia il Natale perché è un po’ il simbolo dello stare con gli altri, della solidarietà. Per chi non sta bene, diventa così un giorno tremendo, in cui viene messa a nudo la sua solitudine. Spesso le persone ricorrono alla compagnia degli altri per disperazione, non scelgono l’interlocutore. Addirittura, nelle relazioni amorose, pur di non stare soli si sta con una persona che non si ama. Ma come si fa?».
Da che cosa prende origine questo bisogno di compagnia a tutti i costi?
«Si tratta di un percorso che inizia da piccoli, quando si educano i bambini a considerare le emozioni cosiddette “fragili” come qualcosa di negativo. La fragilità può essere debolezza, suggestionabilità