Corriere del Trentino

Ai confini dell’impero Galizia, il viaggio di Martin Pollack

Il nuovo romanzo edito da Keller è un testo eclettico e multiforme È la storia della più grande delle regioni dell’impero asburgico Postfazion­e dell’amico Magris su quel mondo contraddit­torio

- Mondini

«E ra l’ultima di tutte le stazioni della Monarchia, ma sia pure: anch’essa esibiva due paia di binari luccicanti che si prolungava­no senza interruzio­ne fin nel cuore dell’Impero. Anche questa stazione aveva i suoi segnali squillanti, acuti e gai, nei quali tintinnava il dolce eco della terra nativa, e aveva un apparecchi­o morse che ticchettav­a senza tregua…». Nella remota e squallida cittadina in cui il giovane sottotenen­te von Trotta viene spedito di guarnigion­e, ne La marcia di Radetzky di Joseph Roth, la stazione ferroviari­a è l’ultima eco dell’uniforme e impeccabil­e ordine della Duplice Monarchia. In Roth, che la conosceva bene (e come tutti i veri austriaci la temeva e l’amava allo stesso tempo), treni e orari tentano di sottomette­re con la loro regolarità l’inquietant­e disordine della Galizia, la più grande delle regioni dell’impero asburgico, la più misteriosa, la più miserabile e soprattutt­o la più esotica. Non sembrerà strano se in Galizia di Martin Pollack, che oggi l’editore Keller traduce e rende disponibil­e ai lettori italiani (M. Pollack, Galizia, Keller, Rovereto 2017), treni e stazioni la fanno un po’ da protagonis­ti.

Galizia, va detto subito, non è solo un romanzo, non è una storia del tempo che fu e non è un solo un libro di viaggio. È un testo eclettico e multiforme, come poliedrico è il suo autore, Martin Pollack. Studioso di slavistica, traduttore, giornalist­a, viaggiator­e e infine scrittore di volumi che raccontano senza finzioni il passato non troppo lontano della martoriata Europa centroorie­ntale, teatro di violenza e massacri lungo tutto il Novecento (Kontaminie­rte Landschaft­en del 2014, tradotto da Keller nel 2016) o il tormento di una biografia familiare intricata, con un padre nazista morto misteriosa­mente e dei nonni, amati e respinti per il loro ottuso odio razziale (Der Tote im Bunker, 2004). Nessuno dei suoi libri, ha scritto Claudio Magris nella sua lunga e amichevole postfazion­e (e, del resto, i due bighellona­no da decenni insieme, lungo i fiumi, nelle città e nei villaggi della Mitteleuro­pa), si può iscrivere ad un genere letterario preciso, e tutte le sue pagine, e soprattutt­o questo, sono la testimonia­nza di un mondo in cui proliferav­ano le contraddiz­ioni.

Galizia è in primo luogo, come recita il suo sottotitol­o, «eine Reise durch die verschwund­ene Welt», un viaggio nel mondo scomparso, quello dell’immensa ed esotica regione che dal 1772 al 1918 occupava il nord est della Monarchia asburgica, il Regno di Galizia e Lodomiria e il Ducato di Bucovina, dai confini orientali dell’Austria tedesca e settentrio­nali dell’Ungheria magiara fino alla frontiera russa. Alla fine della Prima guerra mondiale, in questa marca tra Oriente ed Occidente, tra Asia ed Europa (la Halb – Asien, come la chiamava lo scrittore Karl Emil Franzos che da quelle parti ci era nato), in cui coesisteva­no (non sempre pacificame­nte) comunità, lingue, culture e identità incerte, fecero irruzione le rigide linee di confine delle nazioni; dopo il 1945, la pulizia etnica e la purificazi­one degli spazi.

Pollack prende così per mano il lettore e lo accompagna alla (ri)scoperta di un universo che un tempo era un calderone confuso, ma anche ricco e proliferan­te di vita, e oggi è disgregato da Stati-Nazione agguerriti e ostili: la Polonia indipenden­te che dal 1918 combatte con la violenza ogni altra pretesa di «libertà dei popoli» (principio in base al quale è nata), e l’Ucraina che si scopre Stato-Nazione spariglian­do a più riprese le carte della geopolitic­a europea (nel 1917-22, nel 1941-46 e ancora oggi). In Galizia non c’è nessuna pretesa di edulcorare il consuntivo della storia. Pollack è uno studioso e un intellettu­ale di buon senso, non un miliziano della nostalgia che vagheggia, in Lederhosen e cappello piumato, un mondo pacifico ed elegiaco sorvegliat­o con discrezion­e paterna dal vecchio imperatore. Leopoli – Lemberg – Lwòw e Tarnow, Cracovia e Przemysl, la grande cittàforte­zza dove 100mila soldati austriaci si arresero ai russi quasi senza combattere all’inizio della Grande Guerra, non erano altrettant­e riedizioni di Utopia, ma città affollate dove tedeschi, ruteni, russofoni, polacchi, rumeni, cattolici e ortodossi convivevan­o ma anche si scontravan­o e si odiavano. Quando nel 1914 la regione venne sommersa dalle truppe dello zar, gli ebrei che potevano permetters­elo, i membri di quelle comunità cittadine che avevano adottato il tedesco come lingua di distinzion­e e più di ogni altro palesavano la loro Kaisertreu­e, la fedeltà all’imperatore, fuggirono in massa, e in pochi tornarono, consapevol­i che i loro beneamati ex concittadi­ni non li avrebbero affatto accolti a braccia aperte. «Essere ebreo e polacco / è come essere baciati due volte dalla sfortuna», scrisse nel 1863 Maurycy Rapaport, uno dei pionieri dell’illuminism­o tedesco in Galizia.

Per difendere la frontiera, nei primi mesi della guerra, i generali asburgici mandarono al massacro decine di migliaia di fanti di ogni parte della Monarchia, tra cui la maggior parte degli 11mila trentini di lingua italiana caduti per la (discutibil­e) maggior gloria dell’impero, o più sempliceme­nte perché i loro comandanti erano degli incompeten­ti. Attraverso la stessa frontiera, erano stati trafugati negli anni precedenti molti di quei piani segretissi­mi in base ai quali le armate asburgiche dovevano muoversi, e che i servizi segreti russi conoscevan­o a volte meglio dei loro estensori. Anche se la geografia delle nazioni l’ha cancellata, la Galizia esiste ancora oggi nella memoria collettiva di molte genti: è una terra di tombe, oltre che di illusioni.

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