La battaglia tra Islam e capitalismo
Margherita Picchi ha tradotto il testo di Sayyid Qutb, figura complessa La ricercatrice: i terroristi strumentalizzano il suo pensiero, colto e ricco
Le leve del jihadismo e del radicalismo islamico lo considerano un maître à penser, ispirati da alcuni suoi testi chiave come
All’ombra del Corano e Pietre miliari. Un ruolo che gli viene riconosciuto anche dalle agenzie di intelligence occidentali, e più nello specifico americane, e dalla pubblicistica che lo hanno battezzato come l’ideologo più influente del jihadismo coevo, e dunque del terrorismo. Sillogismi assai diffusi nella contemporaneità dove le catalogazioni – vuoi per semplificazione, vuoi per assenza di metodo – sovrastano la ricostruzione filologica delle biografie umane e intellettuali. La figura di Sayyid Qutb è rimasta così impigliata nella rete dell’antiterrorismo – senza negare, ovviamente, l’effettivo ascendente che l’intellettuale egiziano esercita sugli accoliti del jihad offensivo – e la sua opera in qualche modo ostracizzata e messa al bando.
Il lavoro intrapreso da Margherita Picchi, ricercatrice dell’università di Firenze, si muove in una direzione più complessa che entra nelle pieghe della vita e del pensiero di Qutb per restituire al lettore un’immagine meno lineare. Picchi ha tradotto in italiano La battaglia tra Islam e capitalismo (Marcianum Press, 19 euro) che Qutb pubblicò nel 1951 al rientro da un soggiorno di due anni negli Stati Uniti dove maturò il suo definitivo rigetto della costellazione valoriale dell’Occidente. Il libro sarà presentato martedì 9 maggio (alle 18) – insieme al testo di Massimo Campanini, Storia del pensiero politico islamico: da Muhammad ai nostri giorni nella Sala degli affreschi della Biblioteca centrale di Trento.
Qutb – nato a Musha nel 1906 – era cresciuto in una famiglia di piccoli proprietari terrieri evidenziando un interesse marcato per il sapere. Si laureò in Lingua e letteratura araba nel 1933 e la sua stella letteraria cominciò subito a brillare: divenne membro della scuola poetica «Diwan», fondata da Muhammad ‘Abbas al-‘Aqqad, e ottenne un lavoro al ministero per l’istruzione. Le sue esperienze politiche più significative sono intrecciate al Wafd – il partito di matrice liberale e indipendentista – e poi al Sa’ad, emerso per scissione dal primo dopo che le istanze nazionaliste si erano affievolite. Ma il partito sa’adista rimase sempre marginale. L’Egitto della transizione - dal protettorato britannico all’indipendenza (1936) e poi ancora al colpo di Stato degli Ufficiali liberi (1952) - era un Paese dove le differenze di classe apparivano marcate e il dominio coloniale sulle risorse ancora radicato. L’agricoltura informava il capitalismo autoctono; poche famiglie controllavano la maggioranza dei possedimenti fondiari. La povertà identificava la vita dell’egiziano medio e non di rado assumeva i contorni dell’indigenza.
Il contesto sociale insoddisfacente è una delle motivazioni
che rovesciano l’orizzonte di Qutb. Un’altra va attinta nella sua biografia personale: la morte della madre Fatima nel 1940 unita a una condizione di profonda infelicità che l’intellettuale viveva al Cairo. Dal nazionalismo laico si avvicina alle istanze dell’Islam. La battaglia tra Islam e
capitalismo, che rivela tutta la verve e la vis polemica dell’autore, è il testo che delinea un passaggio nella concezione qutbiana. A dispetto del titolo duale, il libro pone l’Islam come terza via tra capitalismo e comunismo. «Dobbiamo deciderci a imboccare l’unica strada che può restituirci il nostro prestigio fra i due blocchi, e offrirci il rispetto agli occhi di tutti (…). Loro si fronteggiano, si combattono e lottano sulla nostra pelle e noi siamo i protettorati, le colonie, gli oggetti!» attacca il pensatore egiziano il cui punto d’imbarco è comunque l’ingiustizia sociale, vero fil rouge della sua produzione (il «socialismo islamico» è la corrente politica a lui più affine, sottolinea Picchi), «contraria ai principi più elementari di una giusta economia». La disoccumento, pazione, il colonialismo predatore, il feudalesimo dell’agricoltura, la separazione tra una minuta «casta di ricchi oziosi e inerti» e la massa di diseredati, la disparità nelle retribuzioni avevano minato le basi dello sviluppo della nazione. La via d’uscita non era il comunismo («un’ideologia meschina») né tantomeno il capitalismo che «si rivolge alle classi dominanti e alle caste di sfruttatori». La salvezza è nel «compagno e amico» Islam, secondo Qutb, l’unico «in grado di darci una completa giustizia sociale, e di restituirci un governo giusto, un’economia giusta, giuste opportunità, e un giusto sistema di retribuzione». Qui si esplicita anche la visione dell’Islam come praxis, di una religione che «non è giunta per isolarsi negli eremi e nei templi» bensì per governare.
Qutb, quasi a prevenire le possibili obiezioni, dedica un capitolo a confutare gli «equivoci sul governo islamico» che si allungano dall’arcaicità alla tirannia, dal trattamento delle minoranze alla condizione delle donne. Su quest’ultimo argo- afferma che «molte donne temono che l’Islam, se tornasse al potere, le ricondurrebbe in schiavitù o le rinchiuderebbe di nuovo negli harem. Ma questo è un timore privo di fondamento», l’Islam ha concesso loro il diritto alla proprietà e al profitto, «la libertà di sposarsi con chi desidera, il diritto di andare e venire, purché in abiti decenti che non provochino gli appetiti degli uomini».
Nella sua requisitoria Qutb non risparmia nessuno: né il sistema parlamentare («distante dalle masse proletarie escluse e ingannate») né tantomeno gli ulema, che si sono ammantati di un’aura di sacralità.
Un anno dopo la pubblicazione del pamphlet gli «Ufficiali liberi», guidati da Neghib e Nasser, rovesciano la monarchia dell’impopolare re Faruq. Qutb aveva nel frattempo aderito ai Fratelli musulmani, l’organizzazione fondata da al-Banna nel 1928, e intrecciato un dialogo con la rivoluzione. L’idillio durò poco. Nel 1954 i Fratelli musulmani vennero sciolti dopo che un loro militante cercò di uccidere Nasser, Qutb finì in prigione nel 1955 condannato a 15 anni di lavori forzati per attività controrivoluzionaria e venne poi impiccato nel 1966. È qui che prende avvio l’ultima e controversa fase del pensiero di Qutb, quella della radicalizzazione dettata anche dalle disumane torture e condizioni di detenzione nella prigione militare di Tura.
Picchi ricostruisce minuziosamente la semantica religiosa dell’intellettuale egiziano nei suoi differenti passaggi: la concezione dell’Islam — dall’origine divina (rabbaniyya) all’unitarietà (twahid) —, l’insistenza sul principio di sovranità divina (hakimiyya) che attribuisce a Dio il ruolo di supremo legislatore (shari’a), la legittima scomunica (takfir) dei governanti jahili (ignoranti). Nelle ultime opere, sottolinea la ricercatrice, il baricentro del pensiero di Qutb si sposta dalle istanze sociali e morali a quelle teologiche, si estremizza. La sua teoria del jihad per contrastare i governi corrotti presenta elementi di ambiguità ancora oggi argomento di discussione.
Ma ciò non è sufficiente, secondo Picchi, a invalidare il percorso concettuale di Qutb o a sovrapporrlo tout court al radicalismo perché la rappresentazione che ne deriviamo è anche l’esito di un’esegesi estrema e restrittiva della sua opera. «Le correnti islamiste jihadiste che enfatizzano l’aspetto terroristico del pensiero qutbiano, in realtà lo tradiscono — scrive Picchi — Le teorie di Qutb, un pensatore complesso, colto e originale, mostrano una grande distanza dalle concezioni più banali e in genere poco istruite degli ideologi che poi sono stati chiamati “qutbisti”».