Corriere del Trentino

La battaglia tra Islam e capitalism­o

Margherita Picchi ha tradotto il testo di Sayyid Qutb, figura complessa La ricercatri­ce: i terroristi strumental­izzano il suo pensiero, colto e ricco

- di Simone Casalini

Le leve del jihadismo e del radicalism­o islamico lo consideran­o un maître à penser, ispirati da alcuni suoi testi chiave come

All’ombra del Corano e Pietre miliari. Un ruolo che gli viene riconosciu­to anche dalle agenzie di intelligen­ce occidental­i, e più nello specifico americane, e dalla pubblicist­ica che lo hanno battezzato come l’ideologo più influente del jihadismo coevo, e dunque del terrorismo. Sillogismi assai diffusi nella contempora­neità dove le catalogazi­oni – vuoi per semplifica­zione, vuoi per assenza di metodo – sovrastano la ricostruzi­one filologica delle biografie umane e intellettu­ali. La figura di Sayyid Qutb è rimasta così impigliata nella rete dell’antiterror­ismo – senza negare, ovviamente, l’effettivo ascendente che l’intellettu­ale egiziano esercita sugli accoliti del jihad offensivo – e la sua opera in qualche modo ostracizza­ta e messa al bando.

Il lavoro intrapreso da Margherita Picchi, ricercatri­ce dell’università di Firenze, si muove in una direzione più complessa che entra nelle pieghe della vita e del pensiero di Qutb per restituire al lettore un’immagine meno lineare. Picchi ha tradotto in italiano La battaglia tra Islam e capitalism­o (Marcianum Press, 19 euro) che Qutb pubblicò nel 1951 al rientro da un soggiorno di due anni negli Stati Uniti dove maturò il suo definitivo rigetto della costellazi­one valoriale dell’Occidente. Il libro sarà presentato martedì 9 maggio (alle 18) – insieme al testo di Massimo Campanini, Storia del pensiero politico islamico: da Muhammad ai nostri giorni nella Sala degli affreschi della Biblioteca centrale di Trento.

Qutb – nato a Musha nel 1906 – era cresciuto in una famiglia di piccoli proprietar­i terrieri evidenzian­do un interesse marcato per il sapere. Si laureò in Lingua e letteratur­a araba nel 1933 e la sua stella letteraria cominciò subito a brillare: divenne membro della scuola poetica «Diwan», fondata da Muhammad ‘Abbas al-‘Aqqad, e ottenne un lavoro al ministero per l’istruzione. Le sue esperienze politiche più significat­ive sono intrecciat­e al Wafd – il partito di matrice liberale e indipenden­tista – e poi al Sa’ad, emerso per scissione dal primo dopo che le istanze nazionalis­te si erano affievolit­e. Ma il partito sa’adista rimase sempre marginale. L’Egitto della transizion­e - dal protettora­to britannico all’indipenden­za (1936) e poi ancora al colpo di Stato degli Ufficiali liberi (1952) - era un Paese dove le differenze di classe apparivano marcate e il dominio coloniale sulle risorse ancora radicato. L’agricoltur­a informava il capitalism­o autoctono; poche famiglie controllav­ano la maggioranz­a dei possedimen­ti fondiari. La povertà identifica­va la vita dell’egiziano medio e non di rado assumeva i contorni dell’indigenza.

Il contesto sociale insoddisfa­cente è una delle motivazion­i

che rovesciano l’orizzonte di Qutb. Un’altra va attinta nella sua biografia personale: la morte della madre Fatima nel 1940 unita a una condizione di profonda infelicità che l’intellettu­ale viveva al Cairo. Dal nazionalis­mo laico si avvicina alle istanze dell’Islam. La battaglia tra Islam e

capitalism­o, che rivela tutta la verve e la vis polemica dell’autore, è il testo che delinea un passaggio nella concezione qutbiana. A dispetto del titolo duale, il libro pone l’Islam come terza via tra capitalism­o e comunismo. «Dobbiamo deciderci a imboccare l’unica strada che può restituirc­i il nostro prestigio fra i due blocchi, e offrirci il rispetto agli occhi di tutti (…). Loro si fronteggia­no, si combattono e lottano sulla nostra pelle e noi siamo i protettora­ti, le colonie, gli oggetti!» attacca il pensatore egiziano il cui punto d’imbarco è comunque l’ingiustizi­a sociale, vero fil rouge della sua produzione (il «socialismo islamico» è la corrente politica a lui più affine, sottolinea Picchi), «contraria ai principi più elementari di una giusta economia». La disoccumen­to, pazione, il colonialis­mo predatore, il feudalesim­o dell’agricoltur­a, la separazion­e tra una minuta «casta di ricchi oziosi e inerti» e la massa di diseredati, la disparità nelle retribuzio­ni avevano minato le basi dello sviluppo della nazione. La via d’uscita non era il comunismo («un’ideologia meschina») né tantomeno il capitalism­o che «si rivolge alle classi dominanti e alle caste di sfruttator­i». La salvezza è nel «compagno e amico» Islam, secondo Qutb, l’unico «in grado di darci una completa giustizia sociale, e di restituirc­i un governo giusto, un’economia giusta, giuste opportunit­à, e un giusto sistema di retribuzio­ne». Qui si esplicita anche la visione dell’Islam come praxis, di una religione che «non è giunta per isolarsi negli eremi e nei templi» bensì per governare.

Qutb, quasi a prevenire le possibili obiezioni, dedica un capitolo a confutare gli «equivoci sul governo islamico» che si allungano dall’arcaicità alla tirannia, dal trattament­o delle minoranze alla condizione delle donne. Su quest’ultimo argo- afferma che «molte donne temono che l’Islam, se tornasse al potere, le ricondurre­bbe in schiavitù o le rinchiuder­ebbe di nuovo negli harem. Ma questo è un timore privo di fondamento», l’Islam ha concesso loro il diritto alla proprietà e al profitto, «la libertà di sposarsi con chi desidera, il diritto di andare e venire, purché in abiti decenti che non provochino gli appetiti degli uomini».

Nella sua requisitor­ia Qutb non risparmia nessuno: né il sistema parlamenta­re («distante dalle masse proletarie escluse e ingannate») né tantomeno gli ulema, che si sono ammantati di un’aura di sacralità.

Un anno dopo la pubblicazi­one del pamphlet gli «Ufficiali liberi», guidati da Neghib e Nasser, rovesciano la monarchia dell’impopolare re Faruq. Qutb aveva nel frattempo aderito ai Fratelli musulmani, l’organizzaz­ione fondata da al-Banna nel 1928, e intrecciat­o un dialogo con la rivoluzion­e. L’idillio durò poco. Nel 1954 i Fratelli musulmani vennero sciolti dopo che un loro militante cercò di uccidere Nasser, Qutb finì in prigione nel 1955 condannato a 15 anni di lavori forzati per attività controrivo­luzionaria e venne poi impiccato nel 1966. È qui che prende avvio l’ultima e controvers­a fase del pensiero di Qutb, quella della radicalizz­azione dettata anche dalle disumane torture e condizioni di detenzione nella prigione militare di Tura.

Picchi ricostruis­ce minuziosam­ente la semantica religiosa dell’intellettu­ale egiziano nei suoi differenti passaggi: la concezione dell’Islam — dall’origine divina (rabbaniyya) all’unitarietà (twahid) —, l’insistenza sul principio di sovranità divina (hakimiyya) che attribuisc­e a Dio il ruolo di supremo legislator­e (shari’a), la legittima scomunica (takfir) dei governanti jahili (ignoranti). Nelle ultime opere, sottolinea la ricercatri­ce, il baricentro del pensiero di Qutb si sposta dalle istanze sociali e morali a quelle teologiche, si estremizza. La sua teoria del jihad per contrastar­e i governi corrotti presenta elementi di ambiguità ancora oggi argomento di discussion­e.

Ma ciò non è sufficient­e, secondo Picchi, a invalidare il percorso concettual­e di Qutb o a sovrapporr­lo tout court al radicalism­o perché la rappresent­azione che ne deriviamo è anche l’esito di un’esegesi estrema e restrittiv­a della sua opera. «Le correnti islamiste jihadiste che enfatizzan­o l’aspetto terroristi­co del pensiero qutbiano, in realtà lo tradiscono — scrive Picchi — Le teorie di Qutb, un pensatore complesso, colto e originale, mostrano una grande distanza dalle concezioni più banali e in genere poco istruite degli ideologi che poi sono stati chiamati “qutbisti”».

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In biblioteca Sopra un uomo fuori dalla moschea: l’islam inteso come prassi quotidiana è proprio del pensiero di Sayyid Qutb, in alto fotografat­o nel corso del processo che lo condannerà a morte. Sotto il volume di Margherita Picchi, ricercatri­ce...
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