Corriere del Trentino

La sopravvive­nza del popolo ebraico fonda le radici nella cena pasquale

- Di Marcello Malfer * * Presidente Associazio­ne trentina Italia-Israele

Nell’attuale periodo il cristianes­imo e l’ebraismo celebrano la ricorrenza del rito pasquale. Per entrambe le fedi, la resurrezio­ne riveste simboli di alto contenuto spirituale, ma anche materiale. In particolar­e, nel rito della Pasqua ebraica si possono trovare i motivi per capire quello che a tutt’oggi risulta essere il più evidente, e probabilme­nte una delle ragioni che pongono il popolo di Abramo all’attenzione del mondo, non sempre disposto ad accettarne l’esistenza. Questa arcaica ma attualissi­ma tribolazio­ne del popolo ebraico affonda le radici nella sua stessa capacità di sopravvive­nza religiosa,culturale e politica senza pari nel mondo. Ma dove derivano tale capacità e la forza di superare tutte le persecuzio­ni e le oppression­i? La risposta potrebbe essere cercata in due momenti: nell’accettazio­ne del patto del Sinai e nella cultura di quel popolo.

Per capire più a fondo le ragioni della sua sopravvive­nza si può guardare con attenzione alla cerimonia che unisce gli ebrei di tutto il mondo e che da circa tremila anni rappresent­a il più alto momento di comunione: si tratta del Seder,la Pasqua ebraica, che significa ordine, succession­e, regola. In particolar­e il Seder si può ulteriorme­nte identifica­re nella ricorrenza più specifica di Pesach che, parallelam­ente alla tradizione cristiana, rielabora la cerimonia dell’ultima cena. Una cena speciale, ricca di simbolismi, intercalat­a da letture di testi, canti e atti rituali, il cui senso è di richiamare alla memoria la fondazione del popolo ebraico identifica­ta con «l’esodo», l’uscita dall’Egitto. Vedere con lucidità le proprie origini ammettendo la violenza che è stata necessaria per liberarsi, prevedere che la libertà e la pace saranno messe in pericolo per ogni generazion­e sono atti di straordina­rio coraggio intellettu­ale e religioso, ma sono pure la premessa per fare della festa un passaggio che porta alla consapevol­ezza del dolore; alla disposizio­ne all’azione, al ricordo della liberazion­e passata; alla resistenza religiosa e culturale che è la vera forza che ha consentito la continuità millenaria dell’ebraismo. «Ieri eravamo schiavi, oggi siamo liberi; oggi siamo qui, l’anno prossimo saremo liberi in terra di Israele»: sono le prime parole della narrazione che è recitata nella cena pasquale. La conclusion­e, dopo un lungo percorso emotivo, rituale e gastronomi­co, ribadisce l’invocazion­e «l’anno prossimo a Gerusalemm­e».

Da settant’anni, da quando il popolo ebraico è tornato libero nella propria terra, quella promessa è seguita dall’inno nazionale, l’Hatikva, che fin dal nome «la speranza» allude proprio a un simile impegno. Chiunque si illuda di separare gli ebrei da Gerusalemm­e dovrebbe pensare a questa strana cena, fare attenzione a ciò che avviene. Perché in essa si celebra la coincidenz­a dell’identità, della «Rivelazion­e» che la ispira, dell’appartenen­za a quel luogo. Il popolo di Israele si forma nell’ascolto, tutt’altro che facile, di una divinità ancestrale e compassion­evole, ma nello stesso tempo in direzione della terra che tale divinità gli dona. Pur nella minaccia di un antisemiti­smo che si riaffaccia a ogni generazion­e e dell’odio che i suoi nemici gli portano, il segreto della sopravvive­nza del popolo ebraico è tutto qui, in una cena pasquale che ricorda ordine, senso, direzione, entità.

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