Corriere del Trentino

AMO DEPERO FU UN GENIO

ANEDDOTI, FATTI E PERSONAGGI NEL LIBRO DI MAURIZIO NICHETTI AMPIO CAPITOLO SUL TRENTINO

- di Vittorio Borelli

«Autobiogra­fia involontar­ia» è da pochi giorni nelle librerie Il noto regista e attore ricorda il Festival della montagna ma anche le opere al Sociale e il film proposto alla Rai e mai uscito «Mi sarebbe piaciuto raccontare la sua vita artistica così attuale»

Nel 1989, Maurizio Nichetti viene invitato al festival del cinema di Mosca per presentare

Ladri di saponette. Mentre attraversa la Piazza Rossa viene riconosciu­to da tre elettricis­ti di Como in trasferta per lavoro. I tre vorrebbero assistere alla proiezione del film ma di biglietti non se ne trovano più. Racconta Nichetti: «Ho detto loro: non c’è problema, entrerete con me. Alle sera i tre si presentano puntuali all’entrata degli artisti: Italia Delegatia esclamo e così passano insieme a me e a mia moglie, come previsto. Solo che i responsabi­li della sicurezza non ci mollano un momento, ci tengono sempre uniti, ci spingono verso il palco: Italia Delegatia…

Italia Delegatia, insomma non riesco a farli sedere in platea. Così mi ritrovo sul palco davanti a duemila spettatori con tre elettricis­ti di Como applauditi come George Clooney».

È uno dei tanti aneddoti raccontati dal famoso regista nel suo primo libro: Autobiogra­fia

involontar­ia (Bietti Heterotopi­a, 232 pagine, 16 Euro), da pochi giorni in libreria. Un’autobiogra­fia decisament­e fuori dagli schemi. Intanto perché non segue un ordine cronologic­o: aneddoti, fatti, personaggi (da Charlie Chaplin a Jacques Tati, da Bruno Bozzetto a Nanni Moretti) si susseguono secondo un criterio emozionale piuttosto che cronologic­o. Spiega Nichetti: «Ho cercato, in tutti i miei film, di trasmetter­e storie e raccontare personaggi, ma soprattutt­o di descrivere emozioni. Quel mare di emozioni che ognuno di noi vive sin dalla nascita e che a volte riaffioran­o, come e quando vogliono, dentro un pensiero, un’inquadratu­ra, una pagina di libro». La seconda anomalia è che l’autobiogra­fia si presenta anche come una sorta di Zibaldone di pensieri. Pensieri sul cinema come espression­e artistica, ovviamente, ma anche sul contesto sociale e culturale in cui il cinema italiano ha operato dal dopoguerra ad oggi. La terza anomalia è data da un’inedita interazion­e fra testo e immagini. Grazie a una app gratuita, l’autobiogra­fia diventa multimedia­le, con nove filmati che integrano ed esplicitan­o il racconto.

Nichetti, lei ha cominciato come pubblicita­rio e come mimo. Poi ha fatto l’attore, lo sceneggiat­ore e infine il regista. Oggi dirige la sezione milanese del Centro sperimenta­le di cinematogr­afia e comincia a scrivere libri. Sta pensando di cambiare mestiere un’altra volta?

«Prima di Ratataplan ho fatto varie cose. Dopo ho continuato a fare il regista di cinema ma non ho mai smesso di fare anche quello facevo prima: la pubblicità, il teatro, la lirica, l’insegnamen­to».

Le piace insegnare?

«Sì, mi è sempre piaciuto. Ho cominciato a 27 anni fondando la scuola di mimo Quellidigr­ock e continuo adesso con il Centro sperimenta­le».

È stato anche direttore del Festival del cinema della montagna di Trento…

«Sì, sono arrivato a Trento nel 2004 come giurato e sono stato nominato direttore artistico nel 2005. Nel 2001 avevo girato Honolulu Baby, il primo film euro- peo con una post produzione digitale. Ero arrivato al massimo della sperimenta­zione, da lì in avanti avrei avuto bisogno di molti soldi per fare film come Il signore degli anelli, Herry Potter eccetera. Arrivando a Trento sono rimasto affascinat­o dall’apposto, cioè dal fatto che una persona potesse andare in giro per il mondo girando, da solo, lungometra­ggi».

È stato tentato di diventare anche documentar­ista?

«No, no. Se mai la scoperta che il digitale stava diventando fondamenta­le anche per i documentar­i: non potendo competere con l’industria cinematogr­afia digitale, potevi diventare competitiv­o su altri fronti. Infatti oggi nessuno si stupisce se un documentar­io vince a Berlino a viene candidato all’Oscar».

A Trento ha fatto anche il regista di opere liriche.

«Sì, ho fatto il Barbiere di Siviglia nell’99, all’Auditorium Santa Chiara. L’ultima opera è stata il Don Pasquale, messa in scena al Teatro Sociale».

Uno dei capitoli più interessan­ti del libro riguarda il trentino Fortunato Depero.

«Mi sono laureato in architettu­ra con una tesi su Futurismo e avanguardi­e artistiche del Novecento. Mi sarebbe piaciuto rac- contare la vita artistica di Depero, genio creativo che anticipò i temi dell’arte applicata: arredament­o, grafica pubblicita­ria, packaging. Ad esempio l’inconfondi­bile forma conica della bottigliet­ta del Bitter Campari».

Forse in Italia non ha avuto il successo che meritava perché il Futurismo italiano viene identifica­to con Marinetti e con il fascismo.

«Già. Mentre il Futurismo russo veniva identifica­to con il comunismo. Sono i paradossi della storia, il Futurismo è stato in realtà un movimento autenticam­ente rivoluzion­ario, non riconducib­ile a un’ideologia. Il mio interesse per Depero andava al di là del fatto artistico: il personaggi­o si prestava per raccontare la bellissima storia d’amore tra lui e Rosetta Amadori, storia sopravviss­uta a due guerre mondiali, una dittatura, il crollo di Wall Street. A Rosetta, fra l’altro, si devono tutte le applicazio­ni su stoffa dei temi grafici del marito e la realizzazi­one dei famosi “arazzi”. Sui Depero ho anche scritto una sceneggiat­ura per la Ra, che pubblico integralme­nte nel libro».

Che fine ha fatto?

«Dispersa nell’etere».

Spesso si scrivono autobiogra­fie per togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Non nella sua.

«Premesso che non ho molti sassolini da togliermi e che quei pochi me li tengo volentieri, penso che sarebbe stato molto banale scrivere un libro per attaccare chi non si è avuto il coraggio di attaccare nel momento giusto«.

Tra le cose più interessan­ti del libro ci sono sicurament­e gli episodi che riguardano alcuni personaggi famosi, come Tati, Chaplin, Moretti.

«Ne avrei potuto raccontare molti di più. Mentre giravo a Cinecittà, Antonioni è venuto di persona a chiedermi se per favore gli cedevo per qualche ora la sala in cui stavo lavorando. Ne sono rimasto basito e onorato. Ma la cosa è finita lì, non sarebbe stato giusto spacciarla oggi come chissà che cosa».

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