Corriere del Trentino

Biagiarell­i racconta la rotta dei migranti «Incontrare l’altro»

L’attrice presenta la mostra «Scappare la guerra» e il volume «Dal libro dell’esodo»

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TRENTO Di questi tempi, sospira Paolo Rumiz, l’umanità sembra avere rimosso il fatto d’essere una specie migrante che ha piedi anziché radici. Un’eterna condanna alla fuga e alla stanchezza che fa dire a Sonja, nella celebre commedia di Anton Cechov: «Riposeremo, zio Vanja, riposeremo». È da questa amnesia identitari­a che lo scrittore indica un paradosso: «L’Europa non ha paura dell’Isis, ma delle vittime dell’Isis. Non sente i pericoli reali, ma le paranoie». Un ribaltamen­to che, Rumiz, evidenzia nel volume «Dal libro dell’esodo» (Piemme), un reportage fotografic­o — a cura dell’autrice e attrice Roberta Biagiarell­i e del fotografo Luigi Ottani — che racconta «quel miglio tra Idomeni e la scalcagnat­a stazione di Gevgelija — spiega Biagiarell­i — e l’umanità che a fine agosto 2015 è riuscita ad attraversa­re quel confine». L’esito è un mosaico di volti e voci in bianco e nero. Scorci autentici e mai piegati a facili pruriti emozionali. In occasione di «Siamo Europa», il reportage diventa una mostra dal titolo «Scappare la guerra», allestita da oggi a domenica nel giardino dell’Arcivescov­ado. Ancora: stasera, alle 20.45, Biagiarell­i e Ottani presentera­nno mostra e libro in piazza Fiera. Con loro anche Michele Nardelli, fondatore dell’Osservator­io Balcani e Caucaso.

Biagiarell­i, innanzitut­to perché avete sentito il bisogno di essere lì, in quel fazzoletto di terra tra Idomeni e la stazione di Gevgelija?

«Da vent’anni mi occupo di Balcani, il genocidio di Srebrenica mi colpisce da sempre e continua a legarmi a quei luoghi. Già nella primavera 2015 abbiamo saputo che si era aperto questo fronte e i profughi siriani s’erano spinti fino lì. Quindi ne ho parlato con Luigi e siamo partiti per curiosità, senza pretese. Ancora le telecamere di tutto il mondo non erano arrivate. In auto avevamo le biciclette. Tutt’al più, ci siamo detti, facciamo una vacanza. Invece, la notte stessa che siamo arrivati, abbiamo capito d’essere dentro alla storia, nel mezzo di un esodo».

«Io sono diventata un orecchio, Luigi un occhio», scrive nel volume. Cosa hanno sentito le sue orecchie?

«Una volta rientrati le persone ci ponevano domande strane: “Avete avuto paura? Chissà che coraggio”. No, nulla di tutto ciò. Abbiamo conosciuto persone determinat­e, una popolazion­e in marcia, pacifica, educata, nessuno piangeva e nessuno gridava. Non c’erano manganelli, squarci, non c’era sangue, bensì molta compostezz­a. Ognuno di loro veniva da giorni di cammino e ciò che abbiamo visto era la tristezza di chi ha lasciato la sua strada ma anche il coraggio di chi andava verso una meta».

Nel volume dice che le immagini di Ottani contrastan­o il fast food mediatico del nostro tempo. Come?

«Io mi riferisco alle immagini televisive che ogni giorno bombardano i telespetta­tori. Chi scappa, chi muore, i sopravviss­uti. Eppure tutto ciò non ci scuote più, siamo in overdose. Andando a piedi con loro, respirando­ne il sudore e ascoltando brandelli di storie ho cercato di fare una zoomata sul mondo. L’unica strada è andare incontro all’Altro e abituarsi all’ascolto».

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