Spiritualità in veste rock Bolzano, arrivano gli Zu
La band: la sepoltura tibetana al centro del nostro album
Il nuovo corso degli Zu fa scalo domani al Pippo Stage di Bolzano (alle 21.30), nell’evento organizzato da Poison For Souls. Il terzetto formato da Massimo Pupillo (basso), Luca T. Mai (sax) e Tomas Jarmyr (batteria) ha appena pubblicato Jhator, uscito ad aprile per House Of Mithology, un disco che si differenzia profondamente dai lavori precedenti del gruppo romano, che ha acquistato una dimensione sempre più internazionale. Già nel precedente Cortar Todo (2015) si poteva leggere un ricorso più marcato all’elettronica rispetto al tradizionale granitico asse di basso, batteria e sassofono, ma in Jhator è tutto molto più radicale. Spariscono gli strumenti tradizionali a favore di strumenti nuovi, in linea con la filosofia metafisica di un disco virato decisamente a oriente. Due lunghe suite psichedeliche, eteree e minimali compongono l’album, il cui titolo sta a significare Sepoltura Celeste: rito funebre tibetano in cui il corpo del defunto viene scuoiato ed esposto agli avvoltoi. Ne abbiamo parlato con Massimo Pupillo, fondatore nel 1997 a Roma del gruppo.
Cosa c’è dietro un disco spiazzante e affascinante come «Jhator»?
«Un personale interesse per la cultura tibetana che coltivo da quando avevo vent’anni: un viaggio di qualche anno fa in quei posti ha ampliato le fonti di ispirazioni, venendo a contatto coi monaci e la gente del luogo. L’immagine della “sepoltura celeste” continuava a tornare nei dischi successivi al viaggio sull’Himalaya e qui è diventata centrale. Al primo sguardo potrebbe sembrare cruenta e crudele ma in realtà rivela un messaggio di grandissimo ottimismo e positività: ridare alla natura ciò che non serve più perché la vita vada avanti. Il regista teatrale Romeo Castellucci, con cui abbiamo lavorato nel 2008, trovava già che la nostra musica conteneva storie e drammaturgia e in Jhator abbiamo accentuato questo aspetto. Si tratta di argomenti un po’ tabù nel rock attuale ma credo che artisticamente possiamo prenderci dei rischi».
Che tipo di concerto avete pensato per promuovere questo album?
«Suonare Jhator dal vivo ti svuota completamente quindi abbiamo deciso di partire con un excursus nei vecchi dischi. Ogni concerto fa storia a sé, dipende tanto dal luogo in cui suoniamo, quale tipo di pubblico abbiamo di fronte, quale grado di attenzione si è instaurato. A quel punto decidiamo se suonare o meno Jhator partendo da A Sky Burial».
Quanto siete cambiati dai tempi di «Carboniferous»?
«Cambiare per me ha sempre significato espandere il vocabolario: in tutti i nostri dischi ci sono elementi che tornano. Trovo i cambiamenti vitali per evitare di fossilizzarci su un prodotto che magari funziona ma che poi ti ingabbia e toglie stimoli. In musica è facile etichettare un gruppo in un genere ma proviamo a pensare a un regista come Kubrick, che ha fatto capolavori cimentandosi in ogni genere. Jhator rispecchia bene i miei ascolti attuali, lontani dal metal e dal rock. Sia io che Luca abbiamo messo in secondo piano i nostri strumenti tradizionali, cosa che però non faremo dal vivo».
Il rito di esporre i cadaveri agli avvoltoi è positivo: tutto torna alla natura
Jhator è un disco che ci svuota: lo proporremo solo se si creerà il clima giusto