LA SCOMMESSA DA GIOCARE
La questione è annosa e tuttora controversa: si mangia o non si mangia con la cultura? Tanti i no, altrettanti i sì. E hanno ragione coloro che dicono no come coloro che, invece, dicono sì. La cultura da sola, nel senso di un museo sia pure eccezionale ma solitario, un teatro, un auditorium musicale con programmazione di prim’ordine, ma voce che grida nel deserto, una biblioteca fornitissima ma senza collegamenti, un castello perfettamente restaurato aperto al pubblico, ma isolato in cima a una valle, per forza di cose arrancano, richiedendo molto tempo per diventare «redditizi», tanto per usare un termine che, pur sbagliando, per tradizione malvolentieri si vorrebbe accostare a «cultura».
Ma se un presidio culturale non va da solo, se è accompagnato da un contesto di infrastrutture turistiche di alto livello (e al riguardo la nostra regione ha in buonissima parte le carte a posto), se viene a trovarsi in una rete più o meno fitta di altri presidi culturali, se ha collegamenti in grado di superare chiusure e campanilismi, è certo che dia da mangiare. I quasi due miliardi di euro di valore aggiunto che, secondo il rapporto Symbola, il sistema produttivo culturale genera in un anno in Trentino Alto Adige ne sono la prova. Fondamentale, naturalmente, è l’educazione del cittadino, portarlo, cioè, a diventare un «consumatore» di cultura, laddove il termine assume per una volta tanto un senso virtuoso. Perciò in primo luogo è essenziale la scuola, e grazie al livello mediamente buono del sistema d’istruzione delle nostre due province, possiamo presumere di partire un poco avvantaggiati rispetto ad altre realtà. Ma il cittadino lo si deve educare anche fuori dalla scuola, appunto con musei, biblioteche, teatri, monumenti e festival che stimolino in lui nuovi bisogni di cultura, nuovi desideri di vedere, di visitare e, sì, di consumare. Un po’ come succede con i libri (o con le ciliegie), che uno tira l’altro. È soprattutto la mano pubblica, dunque, che deve fare, e che fa. E i privati? Perché in maggioranza non investono se non importi pro forma, quasi solo di facciata? Perché non si fidano? Perché continuano — a quel che sembra — a considerare la cultura soltanto un fiore da mettersi all’occhiello e non un possibile moltiplicatore di reddito? Forse hanno paura, forse manca — ancora — una solida tradizione in tal senso: speriamo sia soltanto una questione di tempo e che, intanto, i più giovani tra loro si arrischino a scommettere da subito che la cultura arricchisce non soltanto gli animi.