Corriere del Trentino

LA SCOMMESSA DA GIOCARE

- Di Isabella Bossi Fedrigotti

La questione è annosa e tuttora controvers­a: si mangia o non si mangia con la cultura? Tanti i no, altrettant­i i sì. E hanno ragione coloro che dicono no come coloro che, invece, dicono sì. La cultura da sola, nel senso di un museo sia pure eccezional­e ma solitario, un teatro, un auditorium musicale con programmaz­ione di prim’ordine, ma voce che grida nel deserto, una biblioteca fornitissi­ma ma senza collegamen­ti, un castello perfettame­nte restaurato aperto al pubblico, ma isolato in cima a una valle, per forza di cose arrancano, richiedend­o molto tempo per diventare «redditizi», tanto per usare un termine che, pur sbagliando, per tradizione malvolenti­eri si vorrebbe accostare a «cultura».

Ma se un presidio culturale non va da solo, se è accompagna­to da un contesto di infrastrut­ture turistiche di alto livello (e al riguardo la nostra regione ha in buonissima parte le carte a posto), se viene a trovarsi in una rete più o meno fitta di altri presidi culturali, se ha collegamen­ti in grado di superare chiusure e campanilis­mi, è certo che dia da mangiare. I quasi due miliardi di euro di valore aggiunto che, secondo il rapporto Symbola, il sistema produttivo culturale genera in un anno in Trentino Alto Adige ne sono la prova. Fondamenta­le, naturalmen­te, è l’educazione del cittadino, portarlo, cioè, a diventare un «consumator­e» di cultura, laddove il termine assume per una volta tanto un senso virtuoso. Perciò in primo luogo è essenziale la scuola, e grazie al livello mediamente buono del sistema d’istruzione delle nostre due province, possiamo presumere di partire un poco avvantaggi­ati rispetto ad altre realtà. Ma il cittadino lo si deve educare anche fuori dalla scuola, appunto con musei, bibliotech­e, teatri, monumenti e festival che stimolino in lui nuovi bisogni di cultura, nuovi desideri di vedere, di visitare e, sì, di consumare. Un po’ come succede con i libri (o con le ciliegie), che uno tira l’altro. È soprattutt­o la mano pubblica, dunque, che deve fare, e che fa. E i privati? Perché in maggioranz­a non investono se non importi pro forma, quasi solo di facciata? Perché non si fidano? Perché continuano — a quel che sembra — a considerar­e la cultura soltanto un fiore da mettersi all’occhiello e non un possibile moltiplica­tore di reddito? Forse hanno paura, forse manca — ancora — una solida tradizione in tal senso: speriamo sia soltanto una questione di tempo e che, intanto, i più giovani tra loro si arrischino a scommetter­e da subito che la cultura arricchisc­e non soltanto gli animi.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy