Il movimento dei sindaci: speranze e dubbi
Il movimento politico civico a scala provinciale, che sta affacciandosi sulla scena per iniziativa di alcuni sindaci, ha qualche elemento di originalità, su cui si può tentare un commento, e lascia aperto qualche interrogativo, rendendo lecite al riguardo delle ipotesi.
Il primo elemento distintivo della proposta è il superamento della contrapposizione fra destra e sinistra, ritenute categorie irrimediabilmente consegnate al secolo scorso. Qualcuno ha detto che non è possibile e qualcuno si è quasi scandalizzato. In realtà, assumere un approccio post-ideologico non significa rinunciare a una solida base valoriale, ma vuol dire che i valori fondativi di un progetto politico sono difficili da polarizzare e da contrapporre. E che forse non ha senso farlo. Basta guardare ai programmi delle elezioni locali, dove spesso è francamente difficile cogliere differenze significative, ad esclusione, appunto, dei partiti dove è più marcata la connotazione ideologica. Un’altra variabile è quella generazionale: per chi, oggi, ha venti, venticinque anni, le sigle Dc e Pci non significano alcunché: in tutti i casi , niente che assomigli al senso che hanno per chi, oggi, ha sessant’anni. Infine, elettoralmente, superare l’antica contrapposizione funziona. Basta constatare che una parte maggioritaria e sempre più «infedele» di elettorato non ha intenzione di schierarsi perché non ne vede il motivo. Ciò spiazza anche i partiti tradizionali, che infatti hanno tentato senza riuscirci di collocare «da qualche parte» questo soggetto nascente, e rende più agevole apparentamenti in una prospettiva governativa, che non potranno avere un presupposto ideologico, ma programmatico. È interessante, infine, anche la capacità di quello che in fondo è un partito di raccolta — formato da persone con provenienze eterogenee, storie personali differenti, identità plurali — di far vedere un volto unitario, a fronte di partiti tradizionali che mostrano lacerazioni e divergenze.
Un secondo elemento da sottolineare è la maturità politica della «new entry»: che ha cercato il confronto e non la contrapposizione e, soprattutto, ha preso posizione in maniera molto netta per una politica del fare, assai concreta, quando sarebbe stato più semplice cavalcare l’umore impolitico e rancoroso della pancia dell’elettorato con una proposta antisistema. Insomma, pare di scorgere l’intenzione di tornare a fare politica in un mondo dove la politica è spesso la superficiale rappresentazione di chi la fa.
Fra le incognite, una riguarda la possibilità, non scontata, di trasferire il consenso del quale godono i sindaci «civici» in termini di successo elettorale e di capacità di governo a un altro livello politico e amministrativo, più vicino alla programmazione che alla gestione del quotidiano. Un livello, inoltre, che si esprime attraverso leggi e non nell’amministrazione puntuale, fatto di rapporti istituzionali più che di relazioni personali. Un altro interrogativo riguarda la tenuta dell’esperienza dei «civici»: la continuità è un problema per qualunque formazione politica, anche per quelle che hanno un’organizzazione stabile e il collante di una comune appartenenza ideale, e lo è forse ancora di più per quelle legate strettamente al carisma di alcune persone. Ma è anche vero che, in un mondo «volatile», ciò è vero per tutti. Infine, viene da chiedersi se, vedendo crescere il proprio consenso, il nuovo movimento saprà mantenersi distante dalla tentazione del potere fine a sé stesso e dalle attenzioni non richieste, ma inevitabili, dei professionisti della politica.