I DUBBI SUL CASO «BLUE WHALE» E LA GUARDIA DA TENERE ALTA
Deve tornare a far riflettere il caso «Blue Whale», il terribile gioco che pare abbia ucciso molti adolescenti in Russia. Il «Blue Whale» consiste nell’affrontare per un periodo di cinquanta giorni delle prove in cui lo sfidante deve eseguire regole ben precise ed estreme, per esempio auto-lesionarsi, guardare film horror a una certa ora, per poi suicidarsi buttandosi dal palazzo più alto della città. Le regole raccapriccianti sono inviate dai «curatori», persone che dicono cosa devono fare i partecipanti. Nei giorni scorsi è stato arrestato Philipp Budeikin, l’ideatore del fenomeno, studente di psicologia per il quale non è stato evidentemente difficile manipolare la mente di alcuni ragazzini. Il problema non è distante nemmeno dalla nostra realtà regionale spesso ostinatamente considerata ovattata. Più che limitarsi a preoccuparsi per l’«internazionalizzazione» del gioco, che può raggiungere chiunque senza confini, credo opportuno porsi il quesito relativo a come (e perché) dei ragazzi possano cadere in una trappola del genere. Basta davvero affermare che siamo di fronte a giovani con problemi psicologici e familiari, vittime solo delle insidie del web? Certo che no; alla base c’è infatti un malessere non solo esistenziale, ma anche di valori, che le famiglie in primis e poi l’intera società, non riescono più a tramandarsi e i cui componenti (genitori e figli da un lato, come pure rapporti interpersonali — nella fattispecie amicizie — dall’altro) preferiscono rimanere chiusi ognuno nel proprio guscio, indifferenti alle vicende che spesso accadono attorno a esse. Vi è certamente la necessità di una nuova politica valoriale che deve partire non solo dai palazzi delle istituzioni con interventi appropriati di ogni tipo. Ma sono convinto che sarebbe comunque sbagliato scaricare ogni responsabilità su di essa poiché vi è bisogno anzitutto che la società stessa si aiuti da sola, riappropriandosi di principi e valori troppo velocemente messi in soffitta.