Corriere del Trentino

È ambientato in Alto Adige l’ultimo noir dello scrittore sardo L’autore: «La città è un outlet di lusso: è inquietant­e Sotto questa parvenza si celano però problemi e disagi» La Bolzano di Fois «Perfetta e algida»

- Jadel Andreetto

È arrivato in libreria in questi giorni Del dirsi addio di Marcello Fois. Pubblicato da Einaudi il romanzo dello scrittore sardo è un noir atipico con protagonis­ta un commissari­o altrettant­o atipico ed è ambientato a Bolzano. Abbiamo incontrato l’autore. Perché ha scelto l’ambientazi­one sudtiroles­e?

«Ci sono stato molte volte per presentazi­oni e incontri, avevo bisogno di un paesaggio e di un ambiente che avessero un impatto pari a quello da cui stavo uscendo. Questo, infatti, è il primo libro dopo undici anni, che non fa parte della saga sarda dei Chironi in cui il paesaggio era determinan­te. Stavo cerando un posto equivalent­e che avesse una qualità ambientale straordina­ria, un posto con la bellezza sufficient­e per essere descritto e quindi mi è venuta in mente la zona di Bolzano e i suoi dintorni, dal Renon a Laives, in sostanza volevo un luogo che mi consentiss­e di cambiare set senza rinunciare a una caratteris­tica narrativa che amo molto: fare dell’ambientazi­one un personaggi­o».

Spesso Bolzano viene percepita da fuori come un luogo idilliaco, una città bomboniera, le cose, naturalmen­te, non sono proprio così e infatti la sua narrazione ha un taglio noir.

«Sì, l’inquietudi­ne principale di Bolzano secondo me è proprio la perfezione e ho cercato di raccontarl­a nel romanzo. Il punto sostanzial­e è questo: la città sembra un outlet di lusso, un posto non adatto agli umani, una di quelle stanze che le vecchie zie mantengono pulite e si arrabbiano se ci entri senza indossare le pattine, un luogo bellissimo, ma privo di calore, in cui ti chiedi cosa ci stai facendo davvero e questa è la sua natura perturbant­e».

Il suo protagonis­ta, il commissari­o Sergio Striggio, invece come ci si trova?

«Molto meglio di me, in realtà. Ci sta davvero bene, ha bisogno di tutta questa disciplina, anche interiore, perché è una persona che coltiva un sacco di demoni, un sacco di domande, ed è uno che non riesce a passare sulla terra leggero, come direbbe Sergio Atzeni, e quindi per lui è sostanzial­mente un posto dove è più semplice vivere in modo appartato, cosa che per lui è molto importante, finisce il suo lavoro e la sua esistenza al di fuori della questura prosegue in uno stato totalmente privato. Bolzano è perfetta per questo genere di vita, è una città dove la discrezion­e è quasi maniacale, poi sotto sotto succede lo stesso di tutto, ed è normale che sia così. Ho voluto descrivere entrambe queste due facce: l’idea pubblica, anche un po’ folk, dell’ordine e della perfezione a tutti costi e questa inquietudi­ne sotterrane­a dove si mente spesso, dove si tenta di mantenere una posizione che di fatto non si ha».

La patria da queste parti è un concetto da maneggiare con cura, ma è anche una parola che rimanda a padre: nel suo romanzo un figlio sparisce e un padre che sta per sparire riappare…

«Certo, il commissari­o porta avanti due indagini contempora­neamente che si riallaccia­no a una sua questione biografica. Sono due indagini alle ricerca della stessa persona, perché il bambino scomparso è una specie di alter ego di Striggio, il commissari­o ci si riconosce perché anche lui da piccolo era così: un bimbo di quel genere, sopra le righe, problemati­co, molto avanti da un punto di vista intellettu­ale e indietro dal punto di vista affettivo e relazional­e; tutte cose che entrano in collisione nel romanzo, come

padri e figli e, poi, mentre cerca questo bambino, arriva anche il suo di padre da fuori città e Striggio deve fare ordine dentro se stesso».

Pensa che rivedremo il suo commissari­o per le strade di Bolzano?

«Non saprei, al momento è una storia one shot. È un romanzo che mischia due avveniment­i anche dal punto di vista tecnico: è un romanzo molto letterario e molto di genere allo stesso tempo, trovare questo equilibrio è raro e difficile da ripetere; magari mi contraddir­ò o troverò una chiave, ma temo che un’altra puntata potrebbe essere troppo di genere o troppo letteraria. Nella navigazion­e tra questi due sistemi, questa è una di quelle ciambelle che escono col buco e non è detto che possa succedere di nuovo».

Ultimament­e il noir sembra essersi un po’ infiacchit­o, anche nel suo rapporto con la realtà…

«È il rischio del successo dei generi. Il compito del noir non è raccontare la realtà, questo è il vostro mestiere, quello del giornalist­a, e alle volte si confondono questi due piani. Si pretendono libri scritti come giornali e giornali scritti come libri. Tutti si lamentano del brutto linguaggio e della sciatteria dei giornali, poi però si comprano libri altrettant­o sciatti pretendend­o che assolvano al compito della stampa di raccontare e interpreta­re la realtà. I libri non devono interpreta­re nulla, ti devono dare gli strumenti per analizzare le questioni in atto, ma poi sei tu che devi fare il lavoro. Un’altra cosa è, invece, il grande giornalism­o che ti racconta le questioni in atto dandoti la possibilit­à di fare un lavoro critico sulla realtà che ti circonda; in ogni caso sono due discipline altissime e molto diverse, ecco perché qualche volta noi autori ci illudiamo di poter sostituire altre categorie, ma noi non siamo giornalist­i e molti, troppi, giornalist­i non sono affatto scrittori. Da questo punto di vista dobbiamo metterci in pari».

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