Reni, l’algoritmo che ridà speranza Il Nobel Roth: sgretolare le iniquità
Il Nobel Roth: il sistema si autofinanzia. Allo studio anche un’assicurazione
Quello tra Josè e Christine è stato «il primo scambio di reni su scala mondiale». Lo ha spiegato ieri Roth, premio Nobel per l’economia nel 2012 per aver individuato un algoritmo che ha consentito la definizione di un sistema per scambiare i reni, in genere tra due, spesso tre coppie. «Portare lo scambio su scala internazionale potrebbe salvare migliaia di vite».
TRENTO Josè e Christine si abbracciano. Alvin Roth mostra con orgoglio uno scatto della coppia filippina appena rientrata in patria dall’Ohio. Sorridono. Poco più di due anni fa, nel gennaio 2015, la loro storia è diventata il simbolo di una frontiera pionieristica della medicina. «Il loro è il primo scambio di reni su scala mondiale», spiega Roth, premio Nobel per l’economia nel 2012 per aver individuato un algoritmo che ha consentito la definizione di un sistema per scambiare i reni, in genere tra due, spesso tre coppie. Il funzionamento è semplice quanto efficace: intrecciare domanda e offerta affinché ciascuno abbia ciò che cerca (o di cui ha bisogno). «Spesso coniugi o parenti non possono donare un rene a un proprio caro poiché incompatibili», spiega il docente. Di qui l’idea. Roth ipotizza uno scambio reciproco tra coppie: do ut des. Prima quattro persone, poi sei, poi dodici, venti. Infine, con José e Christine, l’ultima evoluzione: intersecare i bisogni tra Paesi ricchi e Paesi poveri. «Portare lo scambio di reni su scala internazionale potrebbe salvare migliaia di vite — assicura Roth — e al tempo stesso garantisce assistenza a chi, nelle nazioni in via di sviluppo, non ha chance». Obiettivo: sgretolare le iniquità.
È docente alla Stanford University e professore emerito ad Harvard. «Ma soprattutto — precisa Tito Boeri, direttore scientifico del Festival dell’Economia — la carriera di Roth è una lezione sul metodo degli economisti: ha saputo utilizzare strumenti, estremamente analitici, per salvare vite umane». Dalla matematica alla medicina, per gestire i mercati che Roth definisce «non monetari», ossia tarati su altri presupposti («Pagare un organo oltre che illegale è considerato ripugnante»).
Ospite della prima giornata del Festival, a Trento ha indicato i prossimi obiettivi: allargare le catene di scambio, non più — e non solo — entro i confini di un solo Paese, bensì intrecciando domanda e offerta sparpagliate in tutti i continenti.
«In molte parti del mondo la malattia renale è sentenza di morte — precisa Roth — In Europa si può sopravvivere grazie a dialisi e trapianti, ma anche in questo caso non c’è un trapianto per tutti». I numeri rendono l’idea: «Negli Stati Uniti ci sono 100.000 persone in attesa di trapianto da un deceduto e solamente 12.000 donatori deceduti». Troppo pochi.
«Tuttavia i reni sono speciali — aggiunge Roth — Ne abbiamo due e uno lo si può donare restando perfettamente in salute». Sufficiente? No. L’incompatibilità è altamente frequente e lo slancio dei donatori, pronti a salvare la vita di un proprio caro, è infranto. Nel 2006, però, Roth mette in pratica la sua teoria e due coppie riescono a donarsi reciprocamente due reni. Da quell’intervento in simultanea ne seguono altri. L’otto aprile 2008, i chirurghi del «Johns Hopkins» Hospital di Baltimora conducono dodici operazioni sincronizzate, sei donatori e sei riceventi. «Oggi la donazione, negli Stati Uniti, copre quasi il 14% dei trapianti da vivente — ricorda Roth — Ma non abbiamo ancora vinto».
Il docente immagina infatti la possibilità di allargare il modello, riducendo le iniquità tra Paesi ricchi e poveri, ampliando al tempo stesso la possibilità di avere un rene e ridurre i tempi d’attesa. «Ci siamo chiesti: possiamo fare qualcosa per le nazioni in via di sviluppo? Tant’è che nel 2015 — ricorda — abbiamo condotto il primo trapianto mondiale». Una coppia dalle Filippine è arrivata in Ohio. «Christine ha donato un rene a un cittadino statunitense e suo marito Josè ha potuto riceverne uno». Di più: «Non avendo nelle Filippine assistenza e farmaci adeguati per affrontare la terapia post-operatoria abbiamo istituito un fondo comune».
Nessuna utopia, Roth immagina anche la sostenibilità economica dello scambio su scala globale. «È un sistema che si autofinanzia, specie perché il trapianto, pur essendo la cura migliore, è estremamente più economico rispetto ai costi per la dialisi». A ciò si aggiunge l’ipotesi di un’assicurazione. Un modello ancora vergine ma che, assicura Roth, «può salvare migliaia di persone».
Garantiamo assistenza a chi, nei Paesi in via di sviluppo, non ha chance Oggi la donazione negli Usa copre quasi il 14% dei trapianti da vivente